mercoledì 10 febbraio 2016
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​Caro direttore,sono stato, con mia moglie e i nostri cinque figli, al Family Day. In questi giorni leggo, sento e vedo di tutto su quella manifestazione. Se ne parla molto, quindi – direi – buona cosa! Purtroppo se ne parla anche a sproposito, e allora provo anche io a dire la mia. Non voglio dar lezioni, ma semplicemente raccontarle una sensazione, quella che noi normali del popolo viviamo al di fuori del palco. Sentivo semplicità, spontaneità. Eravamo accampati, con tanti bambini che facevano baccano e non stavano fermi. Abbiamo consumato chili di caramelle per tenerli buoni, e fatto un discreto numero di chilometri per corrergli dietro nel timore di perderli. Non ho sentito rabbia, e nemmeno paura intorno a me. Non ho sentito insulti, provocazioni. Ciascuno di noi è andato al Circo Massimo per propria decisione, con i propri mezzi, con i propri soldi. Ma soprattutto, in quella massa di persone, ho sentito gioia. Poi ho pensato alle tante manifestazioni di chi la pensa diversamente da noi, di chi vorrebbe lasciare le briglie sciolte a ogni tipo di amore (e su questa parola potremmo discutere anni… ma teniamola buona per economia di ragionamento). Adunate (lasciamo stare la guerra dei numeri, chi ha occhi per vedere, vede comunque) chiassose, organizzate, colorate e spesso allegre. E allora mi son chiesto: che differenza c’è tra la nostra gioia e la loro allegria? Il tempo che ci aspetta mi aiuta: siamo prossimi alla Quaresima, preceduta dal Carnevale e coronata dalla Pasqua. Ecco la differenza! A Carnevale si può far chiasso, ballare, cantare, far sfoggio di colori, ingozzarsi di quel che piace. Ma soprattutto si può indossare una maschera, cercare di esser per un giorno quel che non si è e non si sarà – non si potrà essere – mai, perché la realtà è un’altra. Ci si può anche portar dentro quella maschera, oltre lo spazio e il tempo del Carnevale, ma in fondo al cuore non ci si può negare che essa è pur sempre una maschera, una finzione. E alla lunga quella dissonanza tra realtà e finzione finirà per accecare, per intristire. E la maschera triste cercherà di dar la colpa a chi non le permette di vivere come tale tutto l’anno, a chi non le lascia la libertà di crearsi così un mondo di bugia. Il Carnevale per molti è la celebrazione della vita, ma purtroppo per loro è vita di un giorno solo. A Pasqua è tutt’altra cosa. Si celebra la vita vera, quella che dice: ora vivrai per sempre. Nessun colore particolare, solo la luce. Nessun ballo sfrenato, solo la danza della speranza. Nessun chiasso, solo il coro degli angeli. E questa sinfonia dà una gioia profonda: la gioia della verità, la verità di un Uomo Dio che ha accettato di soffrire per amare gli altri, non per amare se stesso. Una verità anche scomoda, a volte addirittura dolorosa, ma nessuna maschera, per gustare la gioia eterna e non l’allegria di un giorno solo. Siamo chiamati – caro direttore – a questo: a scegliere tra Carnevale e Pasqua. E a mostrare con coraggio la nostra scelta.Federico Vincenzi - Brescia
Grazie, caro amico. Trovo bella e profonda la sua riflessione. Personalmente, credo che siamo chiamati a vivere e a “scegliere” tutto il tempo che Dio ci ha dato. Mantenendo chiara l’immensa differenza, che lei a suo modo spiega, tra Carnevale e Pasqua.
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