venerdì 22 maggio 2015
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Caro direttore,
sul nostro giornale è già stato scritto molto a proposito della balorda e ingiusta riforma delle Poste Italiane, però desidero aggiungere una considerazione che mi sembra non essere stata riportata con la dovuta chiarezza. Quando i pensionati furono costretti a fare accreditare la pensione in banca o in posta (con conseguente aggravio di spese), fu detto che nessuno avrebbe avuto problemi perché in Italia esistono migliaia e migliaia di uffici postali, ma dopo la riforma proposta quanti uffici rimarranno? Specialmente coloro che abitano in località piccole o comunque disagiate, rimarranno senza uffici perché ritenuti “non redditizi”! A mio parere, lo Stato deve garantire il servizio postale – come il servizio sanitario e scolastico – in modo facilmente usufruibile da tutti i cittadini. Ciò, sempre a parer mio, anche se deve affrontare delle spese, come avviene per ogni altro servizio di pubblica utilità, senza inseguire a ogni costo un pareggio di bilancio. L’ultima considerazione è dedicata a chi, come me, è abbonato a un quotidiano, e assurdamente lo riceverebbe a giorni alterni. In una tale situazione, quanti abbonamenti verrebbero disdetti? Le Poste come risarcirebbero il danno a lettori e aziende editoriali? Le Poste non sono un’azienda che deve “guadagnare”, ma sono – ripeto – un servizio pubblico! Tanti auguri di buon lavoro unitamente a molti cordiali saluti a lei e ai suoi bravi collaboratori.
Giuliano Tognini - Cervia (Ra)
 
Le sue domande, gentile e caro signor Tognini, sono tutte pertinenti e tutte giustamente incalzanti. E coincidono con le preoccupazioni e degli interrogativi che stiamo approfondendo in queste settimane, dando voce non solo a cittadini-lettori di giornali e periodici, ma ai cittadini tout court e ai rappresentanti dei territori dove vivono questi stessi cittadini che non sono di “serie B”. Territori minacciati di abbandono da parte di un servizio postale che, secondo il piano predisposto dagli attuali timonieri di questa grande azienda, dovrebbe cambiare radicalmente pelle, rinunciando a essere universale e a presidiare diffusamente ed efficacemente tutte le aree della Penisola. È una direzione di marcia del tutto sbagliata. Ne sono profondamente convinto e non solo perché, in questi anni, ho la straordinaria occasione professionale e umana di dirigere “Avvenire”, un quotidiano che vanta un rapporto specialissimo con coloro che continuano a scoprirlo e a sceglierlo e che è oggi il più diffuso per abbonamenti postali nel nostro Paese. Certo, è evidente che la ipotizzata involuzione del servizio postale comporterebbe un gravissimo danno economico, culturale e morale per “Avvenire”, come per tanta altra stampa nazionale e locale, a cominciare dalle nostre testate “sorelle” raccolte nella Fisc (la Federazione dei settimanali cattolici). Per questo ci battiamo con l’arma di un’informazione rigorosa e decisa a svegliare l’opinione pubblica contro una simile “malasvolta”. Che inquieta seriamente la gente d’Avvenire, cioè – oltre a noi che lo facciamo – un vivace e consapevole popolo di lettori che legge questo giornale, lo ama, lo chiama – proprio come lei – «nostro» e, per questo, sopporta da anni anche le imperfezioni (diciamo così) del recapito postale. Alle radici del nostro impegno c’è pero anche una consapevolezza più ampia, perché sappiamo bene che altrettanto pesante sarebbe il danno provocato a tutti coloro che – lei fa bene a ricordarlo – confidano nelle Poste anche per gestire la propria piccola economia familiare (e non solo) e per incassare pensioni e stipendi. Stia pur certo, caro amico, che continueremo a tenere occhi aperti e pagine apertissime al racconto di questa storia, che vogliamo sia a lieto fine. La qualità del servizio postale è uno degli indici più antichi e utili per valutare la qualità della vita civile di una nazione. Io non lo dimentico, noi non ce lo dimentichiamo. E intendiamo chiedere conto a chi mostrasse di dimenticarselo.
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