sabato 24 settembre 2016
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Gentile direttore,
ecco una piccola simpatica storia. Sono pediatra in una valle lombarda e tra i miei assistiti ci sono (pochi) stranieri e alcuni di loro sono figli di immigrati del Maghreb. Incontro nei giorni scorsi una mamma tunisina appena rientrata dal suo Paese. Mi racconta delle vacanze, dell’acquisto di una casetta, in modo che non saranno più ospiti dei parenti, della circoncisione dell’ultimo figlio. La rivedo dopo pochi giorni in studio. Mi racconta più diffusamente della festa della circoncisione, mi regala confetti in una originale confezione e un piatto di dolci tipici con datteri, che si preparano per quella occasione. Poi, anche se il motivo della visita era una semplice tosse, mi chiede di controllare l’intervento eseguito al bambino. «Tutto bene, signora, intervento ben fatto!», dico. E lei sorride contenta. Sento che nel corso degli anni sono nate fiducia e stima reciproche, necessarie per il mio lavoro e una particolare simpatia, al di là delle diverse culture e religioni, che potrebbero dividerci. Forse, basta poco per far vivere insieme persone con fedi e culture diverse: un po’ di gentilezza, ascolto, conoscenza e fiducia. Ieri sera, con amici ho gustato i dolcetti tunisini, pensando a quante mamme italiane scarseggino in riconoscenza e non condividano, al di fuori della famiglia, i momenti belli di festa religiosa e no. Forse che noi si possa imparare qualcosa dagli stranieri, così malvisti da più d’uno in questo periodo?
Elisabetta Musitelli, pediatra a Zogno (Bg)
Tutti possiamo imparare gli uni dagli altri, gentile e cara dottoressa Musitelli. Proprio tutti. Ma io continuo a imparare che le donne hanno – e possono spendere con straordinario profitto – un talento davvero speciale per propiziare l’«incontro» tra i diversi e i lontani di cui lei parla, facendo emergere la gentilezza accogliente, la fedeltà rispettosa e l’allegria del dono che sono alla base di ogni vita buona. È merito – mi dico spesso – di quella “materna” capacità di vivere (e far vivere) insieme che vi è propria, che sa generare fiducia e conoscenza e insegnare ascolto e amore, e che effettivamente si manifesta – qualunque vocazione personale o spirituale voi assecondiate e qualsiasi mestiere facciate – nella resistenza allo «zitellaggio» – uso un’espressione di papa Francesco – della chiacchiera, dello sguardo sospettoso e storto, dell’indifferenza, del rifiuto e dello scarto. Le donne, e madri, sono maestre dell’«incontro» che ancora il Papa ci indica come attitudine necessaria per abitare il nostro mondo pieno di bellezza e bontà, ma anche di tensioni e di ostilità, per comporle, aiutandoci a sentirlo davvero «casa comune», e per tentare – da cristiani quali siamo – di rispondere compiutamente al «comandamento nuovo» di Gesù: la verità di un amore senza fronzoli, che conosce e riconosce, per Dio e per tutti i nostri fratelli e sorelle in umanità. So bene che più di qualcuno considera la costruzione e la valorizzazione della «cultura dell’incontro» una fatica per illusi, un esercizio per sognatori, un inganno “buonista”. E mi amareggia questo scetticismo diffuso a piene mani e a piena voce, a volte purtroppo con toni più che odiosi, ma non mi impressiona più di tanto e spero che non scoraggi i tanti che – come lei, gentile amica – non smettono di sperimentare e condividere la semplicità efficace del rispetto reciproco che si fa simpatia e solidarietà. Proprio per questo le sono particolarmente grato. Abbiamo bisogno anche di “parabole” cordiali come quella che lei ha affidato a questa lettera. Una piccola e bella storia al femminile, che ci riguarda tutti. Buona domenica.
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