martedì 25 novembre 2014
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Gentile direttore,
avevamo ormai perso la speranza di far trovare spazio, nei giornali italiani, al sentimento di quello che succede davvero a Milano, al settimo piano di via Venezian, là dove vengono ricoverati i bambini e gli adolescenti con cancro e là dove, sembra voler sottolineare “Repubblica”, Umberto Veronesi avrebbe perso del tutto la fede in Dio. Pier Giorgio Liverani, domenica 23 novembre, cita la nostra lettera ampiamente sacrificata ancora da “Repubblica” il 19 novembre. Ci permettiamo, direttore, di fargliela avere nella sua forma intera. Magari, se lo ritiene interessante, “Avvenire” riuscirà a darle uno spazio meno “censurato”. Grazie.
«Non crediamo che il male e il suo declinarsi nella vita quotidiana, non solo nelle malattie degli uomini ma anche nelle loro azioni, e più spesso nei loro pensieri, debba essere spiegato dalla “presenza” o dall’“assenza” di Dio, o con il concetto di Dio debba confliggere. Il dolore dei bambini è una sfida ai nostri limiti umani e alle nostre certezze. Per questo crediamo che proprio di fronte alle difficoltà estreme l’unica risposta sia continuare a operare per il bene e mantenere aperta la speranza. Con un certo sconforto, abbiamo letto l’estratto della biografia di Umberto Veronesi dove la sua distanza dalla fede è ricondotta, tra l’altro, alla vista dei piccoli pazienti della pediatria dell’Istituto dei Tumori. Dispiace anche dover leggere – e pensare che come noi leggeranno tanti genitori e tanti pazienti, ex-pazienti guariti e operatori – una descrizione con accenti disperanti dei bambini e dei sentimenti dei loro genitori. Eppure in tanti anni di vita, in condizioni professionali estremamente diverse, in quel reparto assistiamo al miracolo quotidiano di come in circostanze estreme si possano trovare risorse come amore, studio e buone cure in un ospedale pubblico. Pensiamo che tanti che di qui passano e passeranno siano in grado di condividere questo sguardo. Non sappiamo dire se miracolo divino o semplice buona fortuna. Ma talvolta riusciamo a ricordare, comunque vada, che Dio non ci ha abbandonati».
 
Maura Massimino e Franca Fossati-Bellani
direttore e già direttore della Struttura Complessa di Pediatria
Fondazione IRCCS - Istituto Nazionale dei Tumori, Milano
Pubblico volentieri nella sua forma integrale, gentili dottoresse, la vostra lettera di replica a ciò che su un altro giornale era stato messo in pagina. E lo faccio perché sono certo che, tanti lettori saranno contenti, così come lo sono io, di averla potuta leggere nella sua interezza. Ho capito subito, alla prima rapida scorsa, che ogni vostra parola è stata pesata e deliberata, e che questa messa a punto rispetto al cupo racconto di Umberto Veronesi del «settimo piano» – l’area pediatrica – dell’Istituto nazionale dei tumori non è amputabile di nessuna parte. Aggiungo poche notazioni. Io credo che Dio «c’entri» con tutto nella nostra vita, che «c’entri» profondamente anche con la fragilità nostra e dei nostri figli (e che questa sia parte dell’umana somiglianza con Lui, Creatore e Sacrificato e Consolatore). Eppure, proprio come voi, penso che non tutto «debba essere spiegato» attraverso la categorie della “presenza” o della “assenza” di Dio, del Dio-Amore in cui da cristiano credo e che cerco di ascoltare e di seguire. Non in senso veronesiano, intendo. Voglio dire che a me non inquieta sentir parlare di “assenza” di Dio, ma non sentir parlare affatto di Dio. E come voi provo sconforto, anche se poi mi riprendo subito, quando scopro uomini e donne – magari considerati sapienti – che si dimostrano incapaci dello «sguardo» sulle sofferenze e sulle meraviglie della condizione e della passione umana di cui voi, gentili dottoresse, invece siete capaci. Anno dopo anno, scoprendo e riscoprendo la qualità e profondità umana e professionale di coloro che reggono l’Istituto nazionale dei tumori e in esso lavorano, comprendo meglio perché «Via Venezian» – ospedale, campo di battaglia e santuario medico – sia per tanti un punto di luce. Grazie per ciò che fate. E anche per ciò che riuscite a dire.
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