domenica 19 ottobre 2014
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Gentile direttore,
quel che è successo a Milano (e che si sta riproponendo in altre città) merita almeno due righe di commento. Il sindaco Pisapia ha trascritto personalmente sui registri dello stato civile i matrimoni gay celebrati all’estero. Tutto il centrosinistra ha fatto la “ola”, io invece sono rimasto fermo come un palo della luce. Aborro il paciugo e chiedo il rispetto delle differenze. Un conto è l’unione omosessuale, che va riconosciuta ai sensi dell’art. 2 della Costituzione. Un altro è l’alleanza tra l’uomo e donna, chiamata matrimonio (da mater, colei che genera), che viene tutelata dall’art. 29 della Costituzione. Un conto è il Consiglio comunale, che può mandare segnalazioni alle Camere. Un conto è il Parlamento della Repubblica, cui spetta il compito di legiferare (e sarebbe ora che lo facesse, risale al lontano 2007 la discussione sui Di.co. rimasta a mezz’aria). Un conto è il registro comunale delle unioni civili, utile per eventuali interventi in campo sociale. Un altro sono le trascrizioni, che confliggono con le leggi in vigore. Un conto è il leader politico che decide di promuovere una campagna di mobilitazione sull’argomento. Un altro è il sindaco che come ufficiale dello stato civile deve obbedire al ministero dell’Interno. Perché questo mondo procede così storto? Perché è così difficile trovare, anche ai piani alti, interlocutori in grado di distinguere tra orefice, carnefice, pontefice? In passato pensavo che fosse questione di testa. Ma ora che “si va facendo la frattura fonda” (Ungaretti) mi pare che sia innanzitutto un problema di psiche. La figura più diffusa della nostra epoca, la matrice vincente dalla quale vengono tirati migliaia di esemplari è il puer aeternus (vedi il bel libretto dello studioso americano James Hillman, edizioni Adelphi). Al puer manca il recipiente interiore per contenere le esperienze; manca la pausa di riflessione che trattiene gli eventi e li fa acquisire come fatti psichici da sottoporre poi a interpretazione e giudizio. Il puer è tutto il giorno in un moto continuo e inconcludente che non gli permette più di concentrarsi, di leggere, di studiare. Quando poi si mette in politica soggiace ai diktat dei mass media che lo vogliono ancora più infantile. Il puer aeternus, essendo privo di interiorità, cerca il massimo di visibilità. È ossessionato dal gesto politicamente corretto, che quasi sempre è logicamente sconnesso. Quindi in questo caso, a chi come me gli contesta di aver confuso le mele con le pere, risponderà con i soliti slogan sull’uguaglianza e sull’omofobia. No, non ci sto. Ho cercato di diventare vir, di riconoscere quel che Nietzsche chiamava la «grande ragione del corpo» e anche «lo spirito all’opera sotto le nostre cinture». Ritengo per esperienza diretta che non ci sia niente di più sbalorditivo dell’unione di due etero che fa nascere un altro ancora più etero, la piccola peste che sgambetta nel passeggino. Mi sento nel contempo un ottimo omofilo e ogni volta che incontro i miei amici gay gusto la loro gaiezza. Penso, questo sì, che veramente omofobo sia piuttosto lo pseudo «matrimonio gay». Mi pare un tentativo per normalizzare gli omosessuali, sterilizzando la loro creatività umana, politica, artistica, letteraria dentro i ranghi di un istituto pensato per altri scopi.
Giovanni Ambrogio Colombo, Milano
Siamo d’accordo, gentile avvocato Colombo, su un punto decisivo: c’è chi sta scrivendo una musica storta su righe diritte. Lei ci ragiona su volando alto, con pensieri sereni, sviluppando libere valutazioni. A me interessa l’essenziale: il matrimonio è uno, è l’«alleanza tra un uomo e una donna», tra una madre e un padre potenziali che s’impegnano al cospetto della comunità di cui sono parte. Anch’io, come lei, dicendo questo mi fermo al piano della considerazione umana e del significato civile del matrimonio. Perché la nostra fede cristiana può irrobustire e approfondire lo sguardo sulla perenne e «sbalorditiva» forza feconda dell’unione d’amore tra una donna e un uomo, ma non inventa quello sguardo e non lo rende esclusivamente nostro. E perché la nostra fede cristiana non ci fa temere una società umana in cui si costruiscono più forme di solidarietà, ma – non mi stanco di ripeterlo – non può farci rassegnare alla confusione. E non c’è confusione più grande e più rischiosa di quella che porterebbe anche in Italia – come già in alcuni Paesi d’Europa e del mondo – a definire “matrimonio” una relazione tra due persone dello stesso sesso e, conseguentemente, a stabilire un “diritto” a rivendicare quei figli che naturalmente non possono esserci, ma possono essere “prodotti” attraverso processi che comportano il trionfo di manipolazioni di laboratorio e di logiche di mercato: dalla selezione dei figli all’affitto dei grembo di madre o all’acquisto del seme di padre necessari perché una nuova vita nasca. Ma ogni uomo e ogni donna, ogni figlio e ogni figlia, non sono mai un “diritto” d’altri. E gli affetti – che nessuno Stato può normare e normalizzare per legge – con tutto questo non c’entrano proprio, ma gli affari sì. C’entrano secondo logiche e strategie che, da sempre, si sviluppano sopra la testa e oltre le intenzioni degli uomini e delle donne, e infine contro di essi (comunque credano, comunque la pensino, comunque vivano, chiunque amino). E quali affari più grandi è possibile concepire di quelli connessi alla riproduzione umana trasferita lontano e fuori dalla relazione fertile tra una madre e un padre? Già, c’entrano gli affari. E c’entra una politica miope e presuntuosa, che vede bene ciò che pare vicino (magari arrivando appena appena alla tornata elettorale più prossima) e infantilmente non riesce ad alzare lo sguardo sul domani, a rendersi conto dei processi che mette in movimento, dei guasti che provoca, degli scempi e degli strazi che festosamente prepara. Pisapia, Marino e gli altri sindaci dalla firma facile ci pensino e ci ripensino. Altri, quelli che vegliano sulle leggi e quelli che le leggi le fanno, abbiano occhi adulti e buoni.
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