mercoledì 25 febbraio 2015
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Caro direttore,i bambini sono bambini. È un’ovvietà, ma è così. I bambini sono quelli che giocano, sorridono, vedono il mondo capovolto, cioè nel verso giusto, come non riusciamo a vederlo noi. Forse anche questa per molti è una ovvietà, non per me. Capita di leggere da giorni che in questo fantastico mondo governato dagli adulti ci siano le cosiddette «bambine kamikaze» anzi rettifico bimbe che vengono fatte esplodere «come kamikaze». Pare sia la nuova arma da guerra dei signori dell’orrore dei nostri tempi. Dopo gli animali usati nelle due guerre mondiali per far esplodere eserciti e navi, ora tocca ai bambini venir fatti saltare in aria, all’aperto, nei mercati o nei bazar, per strada o nei luoghi pubblici, con il fine ultimo di seminare morte, senza pietà, premendo semplicemente il tasto di un maledetto telecomando. Siamo davanti all’uso di un innocente come arma di guerra e distruzione. Mi domando però dove sia, anche qui, la novità proprio nei giorni in cui Is arruola su YouTube giovani combattenti e mostra i bambini giustiziare ostaggi, oppure crocifigge e seppellisce poveri inermi. Di orrori ne è piena la storia e i peggiori che abbiamo potuto vedere stanno ancora tutti dentro le mura di filo spinato che circondano Ausctwitz e Dachau. Qualche tempo fa un noto giornalista mi scrisse giustamente una mail contrariata in cui affermava che non potevo utilizzare il termine “Olocausto” neanche come esempio per descrivere la più grave tragedia umanitaria del nostro tempo, la guerra in Siria. Questo perché a suo dire quella parola descrive solo e soltanto quell’evento. Mi sono scusato con lui, aveva ragione. Bisogna saper pesare le parole. Mentre assistiamo inermi all’utilizzo di bambini per i peggiori dei crimini come non si vedeva dalla Seconda Guerra Mondiale e non parlo solo del reclutamento come soldati, mi sorprende la leggerezza con cui utilizziamo alcuni termini proprio per definire questi nuovi fenomeni. Non ho l’autorità ne l’autorevolezza di voler correggere nessuno. Mi domando altresì perché trovo quasi ovunque la definizione «bambina kamikaze» invece di una più vera «bambina di 7 anni costretta a farsi esplodere»? Non è una questione di poco conto, né un esercizio grammaticale. È un problema di rispetto. Attraverso questa definizione noi togliamo a queste bambine tutto, le spogliamo e priviamo dei loro pensieri, ne rubiamo l’umanità rendendole colpevoli di fatti che non conoscono, ma subiscono con la morte e vengono calpestate nei loro diritti umani di bambine innocenti esattamente come quando vengono date in sposa a 7 anni, oppure mutilate dei loro genitali. Il «kamikaze» era un pilota dell’aviazione militare giapponese che, nel corso della seconda guerra mondiale, si gettava con il velivolo carico di esplosivo contro l’obiettivo nemico. Loro no, sono solo bambine.Andrea Iacomini, portavoce Unicef Italia

Già, caro Iacomini, parlare oggi con devastante leggerezza di «bimbe kamikaze» (e ieri di bimbi) non è una questione di poco conto, né un puro esercizio grammaticale. Non è neanche soltanto una questione di battute (nel senso giornalistico di minore o maggiore ingombro tipografico). Ma, in un certo senso, è l’insieme di tutte queste cose che si rivela e si condensa in un insistente distillato d’orrore e di pregiudizio, e in una mancanza di rispetto per la vita e per la verità. È paradossalmente comodo parlare e scrivere di «bambine kamikaze», esiliando – consapevolmente o meno – in un mondo altro, davvero alieno, le tragedie dei popoli piagati dalla follia del jihadismo islamista. Un mondo di bambini suicidi e assassini non è – non può essere – il nostro mondo. E noi ce lo diciamo e ripetiamo anche facendo ricorso a quella formula – «bambine kamikaze» terribile e palesemente falsa (lo abbiamo scritto nei nostri commenti e lei, oggi, lo spiega e lo sottolinea di nuovo con passione ed efficacia). Anche se fatichiamo ad ammetterlo, il mondo è però uno solo. Un solo mondo dove due volte vittime sono, invece, le povere creature imbottite di esplosivo e “suicidate” per trucidare persone altrettanto innocenti. Uno stesso mondo, l’unico che ci è dato, dove i bambini e le soprattutto le bambine vengono “cancellati” in tanti modi, prima e dopo la nascita. Un mondo bellissimo eppure segnato anche dalla ferocia e dalla disumanità, gli stessi mostri che facciamo crescere e dilagare con la nostra indifferenza, con la nostra affettata estraneità, con la nostra dosata (anzi calcolata e calcolatrice) degnazione. Un po’ per ignoranza, un po’ per malizia, un po’ per paura ci consegniamo a meccanismi mentali e a un tipo di sguardo per cui ciò che accade in Africa o in Asia o in America Latina, la multiforme guerra che lì si combatte, non ha mai lo stesso valore di ciò che tocca noi che viviamo in questa parte del mondo dove ci illudiamo di poterci rinserrare. Ho usato sempre il noi, caro amico, nel replicarle. Ma so bene che né lei, né io, né i lettori questo giornale ragioniamo così. O, meglio, sono certo che siamo tra quelli che si sforzano di continuare a “vedere” e a “sentire” le ferite e le morti dei nostri fratelli e sorelle in umanità, soprattutto dei più piccoli e indifesi, come sofferenze nostre e nostri doveri di giustizia. E lei ha proprio ragione: la pace e l’umanità cominciano con l’uso di parole giuste, capaci di far comprendere le follie assassine dei terroristi e, almeno in parte, di comunicare pensieri e produrre azioni capaci di disarmarle.
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