sabato 18 aprile 2015
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Gentile direttore,
affermare, come fa lei, essere una leggenda metropolitana quella dei rom che rubano o dello Stato assente per questi individui e duro con gli italiani, è spargere un’altra leggenda metropolitana: quella di “Avvenire” che dipinge i campi rom come Eden o luoghi di delizie. Non volete vedere in faccia la verità, quella che Sant’Agostino asserisce quando dice che l’ordine sociale è la proiezione dell’ordine divino (De Civ. Dei, XIX, 13, 1). E non mi sembra che, in un Paese come l’Italia che ha abolito il reato di clandestinità, questo sia la realtà che lei suppone.
Luciano Pranzetti
 
Che i campi rom siano «Eden o luoghi di delizie» lo pensa lei, gentile professore, e lo attribuisce a me. Ma come si fa? Suvvia… C’è mai stato in uno di quei campi? Vada, se vuole, con coloro che li frequentano non per sport e neanche solo per dovere d’ufficio – educatori, volontari o anche persone normali che riaccompagnano a “casa” una compagna di scuola della propria figlia. Vada e veda. Capirà perché bisogna superare, non «radere al suolo», quei campi. La soluzione della distruzione l’abbiamo già vista, perché venne crudamente e sterilmente realizzata – non lo ricordo per caso… – a Milano, quando Matteo Salvini era capogruppo della Lega Nord in Consiglio comunale e incalzava per rendere ancora più dura la linea di certi assessori già piuttosto duri per conto proprio. Ecco perché mi lascia senza fiato sentir predicare per l’Italia intera e ancora da Salvini, che intanto del suo partito è diventato il gran capo, quella stessa soluzione fallimentare e disumana (si sbaraccarono campi che non avrebbero dovuto neanche nascere e, insieme, si divisero famiglie e si sradicarono ragazzi e ragazze dai percorsi scolastici). Ecco perché mi ribello a sentire di nuovo quella stessa espressione da unni: «Radere al suolo». Con i diritti e i doveri – che debbono andare sempre di pari passo – non ci si possono fasciare i cingoli (o le maxiruote) delle ruspe.E, poi, gentile professore, sarà il caso di cominciare a tenere a mente che metà dei rom sono cittadini italiani, come lei e me. E, ancora come lei e me, che l’altra metà dei rom sono cittadini dell’Unione Europea, ovvero – si dice così – sono «cittadini comunitari». Bisogna proprio cominciare a ricordare che su questa base noi tutti – quale che sia nome, cognome, titolo di studio, residenza, pelle, lignaggio, occupazione o disoccupazione – siamo soggetti alla stessa legge. Non c’è un “noi” e un “loro” in questo senso, non c’è naturalmente e non c’è sulla carta, e tantomeno sulla carta bollata. Ma poiché non siamo tartufi sappiamo entrambi che dentro la comune condizione di cittadini c’è, invece, e pesa, e viene enfatizzata una reale differenza. Che è anche scarto culturale, e tic altezzoso da entrambe le parti, ed è antica diffidenza reciproca tra “stanziali” ed (ex) “nomadi”. E tutto questo è serio problema eppure vera ricchezza (né l’uno né l’altra sono modi di dire, ma realtà con cui fare i conti). Ci sono condizioni e stili di vita oltre il limite della legalità e della civiltà che vanno superati e ci sono “doni” che possiamo farci a vicenda nell’arte di vivere e di vivere insieme, non confondendo l’inconfondibile, non disprezzando o pre-giudicando nulla e nessuno, non ingaggiando una partita durissima e senza scampo tra “razzisti” e “banditi”, ma stabilendo uno standard comune e un comune alfabeto di cittadinanza fatto – appunto – prima di tutto di rispetto: rispetto delle persone e della legge. La legalità, lei può certo insegnarmelo, è infatti benedetta arma a doppio taglio: riguarda sempre anche chi la impugna contro altri. A Milano, la stessa Milano delle ruspe già sperimentate, questi percorsi sono stati aperti, vengono mantenuti e con pazienza e intelligenza continuati. Perché, proprio come lei dice, bisogna «vedere in faccia la verità» e, aggiungo io, insistendo, bisogna resistere all’ottusa e mortificante brutalità delle leggende metropolitane: chi delinque è un delinquente, chi froda è un frodatore, chi sbaglia deve giustamente pagare e riparare (per gli altri e per se stesso). Ma a nessuno tocca di render conto in gruppo, “per categoria”. Unicuique suum, a ciascuno il suo. Non esistono «rom tutti ladri», né «orafi tutti evasori», né «burocrati ministeriali tutti vessatori o fannulloni», né «politici tutti ladri», né «professori tutti in vacanza per tre mesi», né «poliziotti tutti torturatori», né «giornalisti tutti pennivendoli», né «appaltatori tutti corrotti e corruttori», né «italiani tutti mafiosi»… E non esistono – lo ripeterò finché avrò ragione e cuore e voce – esseri umani «clandestini» sulla faccia della terra e sotto il cielo di Dio. Siamo seri, professore. Siamo cristiani. E finalmente siamo ordinati. Civilmente ordinati.
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