venerdì 25 novembre 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
Gentile direttore,
le scrivo perché conosco la sensibi­lità di Avvenire al tema dei diritti u­mani. Dovrebbe trattarsi di un in­teresse centrale, nella politica pri­ma che nell’informazione, ma non sempre è così. Se ne parla spesso sull’onda della cronaca o delle tra­gedie mentre, in particolare per quanto attiene alle donne, è la frontiera fondamentale per le ci­viltà nel mondo globale. La pre­messa serve a introdurre una data – quella di oggi, 25 novembre – che le Nazioni Unite hanno proclama­to dal 1999 'Giornata internazio­nale per l’eliminazione della vio­lenza contro le donne'. È l’occasio­ne di un confronto per quanti, a partire da una vasta rete di associa­zioni e movimenti laici e religiosi, sentono il peso di un conflitto cruento che ha come posta il ri­spetto di ogni donna e la inviolabi­lità del suo corpo. Parliamo di cifre impressionanti. Di donne minac­ciate e torturate in ragione delle lo­ro idee, opinioni politiche, confes­sioni religiose, o semplicemente perché bambine o donne e in quanto tali vittime di fanatismi an­tichi e recenti. Basterebbe ricorda­re che molestie e violenze fisiche sono ancora la prima causa di morte per le donne, e questo spes­so avviene al riparo delle mura do­mestiche, fenomeno che non la­scia affatto immune il nostro Pae­se. Oppure che vi sono realtà dove l’annichilimento comincia prima della nascita e il genere femminile può significare un obbligo all’abor­to. E ancora, pensiamo alle bambi­ne impedite nell’accesso alle scuo­le, alle ragazze costrette a forme di obbedienza tribali, fino alle lapida­zioni, ai visi sfigurati e agli stupri etnici. Un quadro allarmante, dun­que, al punto che le stesse Nazioni Unite hanno introdotto una fatti­specie di reato denominata femmi­nicidio, crimine contro il quale non è consentito alcun relativismo etico. Eppure, nonostante un qua­dro tanto angosciante, anche su questo piano il mondo è in movi­mento.
Penso alle giovani arabe della primavera egiziana e degli al­tri Paesi affacciati sulla costa Sud del Mediterraneo. O a una doman­da di liberazione destinata a cre­scere quanto più la Rete farà circo­lare notizie e immagini sul corag­gio straordinario di tante donne, di tanti giovani. E ancora, penso alle ragazze che nel nostro Paese riven­dicano rispetto per sé, fuori dagli stereotipi offensivi e umilianti di questi anni. Viviamo un tempo ca­rico di rischi enormi ma anche di grandi opportunità. Una stagione destinata a considerare il pieno ri­conoscimento dei diritti umani – civili, politici e sociali – come lo spartiacque tra un nuovo progres­so fondato sul dialogo e l’inclusio­ne e il precipizio nelle epoche buie delle discriminazioni, delle guerre tra etnie, dei nazionalismi e degli sfruttamenti. Per queste ragioni la politica deve capire che non tutto si può ridurre agli spread o alle ne­cessarie azioni di risanamento, ma che l’Europa uscirà dalla sua crisi solo reagendo a un modello econo­mico che nella mortificazione dei diritti umani e sociali ha prodotto diseguaglianze e avidità tali da mettere a rischio il destino delle persone, dei beni comuni, della stessa nostra nozione di civiltà. In­somma, senza il riconoscimento dei diritti, a partire da quelli degli ultimi, è più difficile scoprire la di­mensione dei doveri, e questo vale anche per un Paese come il nostro, ricco di civismo e solidarietà per­sonali e associative. Forse sento queste cose innanzitutto come donna e, aggiungo, come donna di parte che non rinuncia alle sue passioni. Ma credo di poter condi­videre questa sfida con quanti ri­tengono che dalla dignità femmi­nile dipenda l’approdo a una glo­balizzazione umana e rispettosa dell’uguaglianza e del valore di cia­scuno. Il 25 novembre è un’occa­sione per parlarne e ascoltarsi sa­pendo che mai come oggi illumi­nare questa scena è un obbligo morale al quale non possiamo sot­trarci, credenti e no, nel nome di u­na nuova etica pubblica condivisa. Cordialmente
Barbara Pollastrini, deputato del Pd
 
La ringrazio, gentile onorevole Pollastrini, per lo spirito che ha voluto infondere al suo ragionamento e per la bella considerazione che oggi esprime riguardo alla lunga e limpida battaglia giornalistica di Avvenire. È del tutto vero che la violenza contro le donne continua a manifestarsi in diversi modi, cruenti o subdoli, ma sempre terribili. E che si consuma spesso e irrimediabilmente già prima della nascita o subito dopo di essa. Aborti selettivi e infanticidi – quelle esecuzioni deliberate e feroci che hanno costruito, e quasi imposto, il concetto di 'femminicidio' da lei richiamato – hanno provocato per tutto il Novecento (e ancora provocano all’alba del Ventunesimo secolo) morti a centinaia di milioni. Uno sterminio, che soltanto una impressionante congiura degli occhi serrati e delle bocche cucite – che si somma all’inesorabile e umanissimo impulso a chiudere la mente davanti all’orrore – impedisce di cogliere nella sua disumana portata. Di fronte a tutto questo, lei – con indignazione e passione politica – dice che «non è consentito alcun relativismo etico». Sono d’accordo. E, come lei immaginerà, sono talmente d’accordo con quella sua frase­denuncia che, anche a costo di ritrovarci in disaccordo, non riesco a limitarne l’orizzonte. Sono infatti uno di quelli – niente affatto pochi e sempre meno timidi, credenti o meno che siano – che vedono e denunciano nel «relativismo etico» l’ingrediente principale del veleno che corrode questi nostri tempi e fa ancora e sempre ingiuste, e violente, le dinamiche e le economie del mondo che viviamo. Penso, cioè, che male e bene esistano, e che bisogna tornare a distinguerli come meritano (senza manicheismi, e però con tutta la chiarezza necessaria). Penso, insomma, che aborto e infanticidio – come ogni altra deliberata 'terminazione' del debole e dell’inerme – non abbiano bisogno della micidiale e intollerabile 'aggravante' anti­femminile per essere riconosciuti per quello che sono: una tragedia da sventare, un male profondo da scongiurare e sconfiggere. È una visione, lo so, che qualcuno, con radicale disprezzo, definisce «vitalismo». E so anche che si tratta di un disprezzo identico e opposto (ma neanche sempre opposto) a quello che affiora sulla bocca e dalla penna di qualcun altro quando parla e scrive di «femminismo», prendendosela con le donne e con il loro impegno per porre fine a violenze materiali e sopraffazioni morali. E so che è lo stesso disprezzo della realtà umana che non fa più capire che essere femmina e maschio è anche ed essenzialmente – posso autocitarmi? – «stare assieme e accanto, con uguale altezza e diverso ruolo» (così come ci ha amati sin dal principio Dio, diciamo noi cristiani). Quando non si capisce più questo, si fa trionfare l’incomprensione più ostile e si torna a precipitare nel gorgo della violenza. E si finisce per riprodurla, la violenza, non solo per strada o al chiuso di una stanza che dovrebbe essere amica, ma anche nell’apparente quiete di civilissimi consorzi e di asettici laboratori dove ogni 'provocatoria' e 'depredabile' debolezza (o imperfezione) va tolta di mezzo.
 
Sì, gentile onorevole, l’ultima violenza progettata contro le donne – mentre troppe altre non si sospendono – è, a ben vedere, proprio questa. Una violenza rivelatrice che ripete l’insulto contro la femminilità e che non riesce a celare (nonostante una coltre di buonismi e libertarismi) l’ansia di 'espropriare' artificialmente le donne della maternità. Penso anch’io, per ciò che lei dice e per ciò che in tanti (credenti e no) abbiamo ormai capito, che il 25 novembre sia un giorno buono per parlare e per ascoltarsi davvero. E penso anch’io che «una nuova etica pubblica condivisa» sia necessaria. Merita un dialogo fecondo, e merita le solide basi che – come dice Papa Benedetto – possono darle solo i valori fondanti «scritti nel cuore» degli uomini e delle donne. Quelli su cui dobbiamo fare perno, e non mercato.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI