venerdì 11 maggio 2018
Urne aperte sabato 12 maggio. È la prima volta dopo la sconfitta del Daesh, che dal 2014 allo scorso anno ha spaccato il Paese. Scontri confessionali ed etnici, 9 seggi alle minoranze religiose.
Manifesto elettorale a Baghdad. L'Iraq è chiamato a eleggere il Parlamento sabato 12 maggio (Ansa)

Manifesto elettorale a Baghdad. L'Iraq è chiamato a eleggere il Parlamento sabato 12 maggio (Ansa)

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Sabato 12 maggio l'Iraq torna a votare. È la prima volta dopo la sconfitta del Daesh, che dal 2014 allo scorso anno ha spaccato il Paese.

Le 88 liste con oltre 6.900 candidati che si contendono i 329 seggi parlamentari, 9 riservati alle minoranze religiose non islamiche, sono la premessa a nuove sfibranti trattative prima della formazione di un nuovo esecutivo. Fra i circa 24,5 milioni di iracheni chiamati alle urne è sempre l’elemento etnico-confessionale a tracciare appartenenze ben più forti del sentimento nazionale. Ma questa volta – rispetto all’elezione della Costituente (30 gennaio 2005) alle legislative del 2005, 2010 e 2014 – l’incognita è la frammentazione all’interno degli stessi blocchi confessionali, maggioranza sciita compresa.

Il premier uscente Haider al-Abadi è a capo di Nasr al-Iraq («Vittoria dell’Iraq») che, come indica il nome, vuole capitalizzare la vittoria contro il Daesh in un’ottica di unità nazionale. Il suo principale rivale è l’ex primo ministro Nuri al-Maliki con Dawlat al-Qanun («Lo Stato di diritto») pure lui erede, con lo stesso Abadi, della tradizione del Dawa, la storica formazione dell’opposizione a Saddam Hussein. La nuova variabile, nel campo sciita, è al-Fatah, raggruppamento sorto dalle milizie della Mobilitazione popolare con strettissimi legami con Teheran. Altro componente del blocco sciita è Hikma («Saggezza»), guidata dall’ayatollah Ammar al-Hakim. Singolare la scelta del leader radicale sciita Maqtada al-Sadr di correre in una alleanza con il partito comunista in nome della lotta alla corruzione.

Sarà dagli equilibri interni a questi schieramenti che uscirà il nome del prossimo premier, che secondo la costituzione spetta agli sciiti, ma con inevitabili ricadute sull’atteggiamento della comunità sunnita che sin dal 2005 ha subito il richiamo a un irredentismo nostalgico e livoroso.

Ci sono i timori per possibili brogli ma c'è anche chi denuncia un cambiamento degli equilibri demografici data la difficoltà di molti profughi sunniti. Inoltre destano preoccupazioni le minacce dei terroristi del Daesh. I quattro morti di ieri in un attacco a un check point delle milizie filo-governative a est di Tikrit sono la prima, ma di certo non l’ultima, ritorsione jihadista alla “liberazione”.

Resta poi la questione curda. Il referendum autonomista del 25 settembre scorso ha inasprito i rapporti con Baghdad come pure le divisioni interne della seconda componente del parlamento. Se il Partito democratico e l’Unione patriottica si contendono come tradizione la leadership del blocco curdo, questa ora è insidiata anche dalla Coalizione per la democrazia sostenuto pure da Gorran, la terza forza curda nel 2010.

Troppe tensioni a discapito della coesione nazionale, se il patriarca caldeo Louids Sako auspica un parlamento capace di favorire «la riconciliazione e rendere il Paese sovrano e libero dalle pressioni di potenze internazionali e regionali».

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