martedì 6 maggio 2014
Accordo tra 10 Paesi. Bozza entro fine anno. La tassa sulla finanza: ecco cos'è
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Dopo mesi di sonno, torna sul tavolo dell’Europa la tassa sulle transazioni finanziarie (Ftt), quella che in gergo viene chiamata "Tobin Tax". Grazie al pressing di Francia e Germania, che volevano un «segnale forte» in tempo per le elezioni europee, ieri 10 degli 11 paesi (la Slovenia si è sfilata) che avevano aderito alla cooperazione rafforzata per introdurre la tassa hanno presentato una dichiarazione comune. Si tratta di Italia, Germania, Austria, Belgio, Estonia, Grecia, Francia, Portogallo, Spagna e Slovacchia. Un accordo maturato in una riunione a margine dell’eurogruppo lunedì sera tra i paesi partecipanti e poi presentato pubblicamente ieri a tutti e 28 i ministri all’Ecofin.Si tratta di un accordo davvero sul minimo comune denominatore: «Abbiamo trovato un terreno comune non molto grande», ha ammesso il ministro delle Finanze austriaco Michael Spindelegger, che sta svolgendo il ruolo di presidenza della cooperazione rafforzata. Una cooperazione ristretta lanciata nel gennaio 2013 dopo che era risultato impossibile trovare un accordo a 28 sulla proposta originaria della Commissione Europea, presentata nel 2012. La tassa sta suscitando crescenti dubbi, con i bancari e gli industriali che oppongono resistenza. «Questo accordo – ha tuonato Markus Beyrer, direttore generale di BusinessEurope (l’associazione cui aderiscono le varie confindustrie degli stati membri) – è un passo indietro per quanto riguarda la possibilità di rimettere l’Europa sul cammino della crescita e dell’occupazione». Anche la Bce ha messo in guardia da un effetto controproducente. E la Banca europea per gli investimenti (Bei) ha chiesto un’esenzione, paventando un danno economico tra i 600 milioni e 1,6 miliardi di euro.L’accordo politico è davvero minimo. Due i principi chiave: primo, dovrà esser pronta una bozza formale entro fine 2014, in vista poi di far entrare in vigore la direttiva per i Paesi partecipanti dal primo gennaio 2016. Secondo, sarà un’attuazione «graduale», che vedrà in una prima fase interessati solo azioni e «alcuni» derivati. Una limitazione, quest’ultima, dovuta al fatto che vari grandi Paesi, a cominciare dalla Francia e dall’Italia, vogliono evitare un’inclusione generale di questi prodotti considerati utili anche operazione di riduzione dei rischi – preziosi per l’acquisto, ad esempio, di titoli di Stato.Al di là di questo, che giustamente Spindelegger ha definito «solo una dichiarazione politica», non c’è praticamente niente di concreto. Ad esempio per le aliquote: non è più detto che siano utilizzate quelle indicate dalla Commissione (0,1% per le azioni e 0,01% per i derivati), già gira la voce che scendano allo 0,01% anche per le azioni. Difficilissimo, poi, sarà il lavoro per identificare quali derivati includere e quali no. E crescono i dubbi se una tassa così liberi risorse sufficienti: il gettito stimato è via via sceso dai 57 miliardi di euro per tutta l’Ue ai 35 miliardi di euro per i soli Paesi partecipanti (ma con la vecchia proposta della Commissione), ora si parla di 6 miliardi di euro.  Da decidere resta anche a chi si applicherà la tassa. La proposta della Commissione parla del doppio principio della parte emittente (quella che emette il titolo finanziario) e delle parti coinvolte: basta che una delle due sia in uno dei Paesi partecipanti perché scatti la tassa, a prescindere da dove avviene la transazione. La Gran Bretagna, preoccupata che la tassa colpisca di fatto anche la City pur essendo il Paese fuori dalla cooperazione rafforzata, resta sul piede di guerra. Il governo di David Cameron ha subito una dura sconfitta da parte della Corte di giustizia Ue che ha respinto un ricorso contro la cooperazione rafforzata. Ieri però il ministro delle Finanze George Osborne è tornato a minacciare: «Se riterremo che la tassa danneggi gli interessi del Regno Unito non esiteremo a presentare un nuovo ricorso». Irritato anche il collega svedese Anders Borg, «ci è stato presentato questa scarna dichiarazione senza consultarci, non abbiamo alcuna informazione». La risposta dei Paesi partecipanti è stata la solenne promessa di coinvolgere maggiormente gli altri stati nelle consultazioni. Che non saranno affatto facili, l’obiettivo del primo gennaio 2016 non sarà facile da raggiungere.
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