giovedì 15 settembre 2011
A 20 anni dalle riforme del mercato del lavoro uno studio ha esaminato gli effetti sui ragazzi italiani. L’occupazione è cresciuta, ma a prezzo di salari inferiori del 20% e più lunghi periodi di incertezza.
Il lavoro è per l'uomo di Giacomo Samek Lodovici
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Sono sempre di meno e sempre più precari. Hanno titoli di studio più elevati delle generazioni che li hanno preceduti, ma passano da un’occupazione temporanea all’altra, restando intrappolati per anni in un limbo professionale. Guadagnano meno rispetto a padri e fratelli maggiori, scontando pure più alti tassi di disoccupazione e di inattività. I giovani 20-30enni di oggi pagano soprattutto nell’attività lavorativa il gap rispetto a chi è nato prima del 1980. E così un nuovo patto generazionale dovrà passare necessariamente anche dalla riscrittura delle regole del mercato del lavoro.LA SITUAZIONEL’occupazione giovanile, tra i 15 e i 34 anni, è oggi per il 77% costituita da contratti a tempo indeterminato, mentre il 23% è a tempo determinato, percentuale quasi doppia rispetto al tasso sulla popolazione generale (13%). Peggio la disoccupazione: quella generale è stabile sull’8,6%, la giovanile (under 25) è calata al 27,6 dopo aver toccato un picco del 29%, un livello molto più elevato della media europea (20,5%). Significativi anche i dati elaborati in una ricerca della società di executive search Elan international: il tasso di occupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni è sceso, nel terzo trimestre 2010, al 20,5% perdendo oltre 5 punti dal 25,8% del 2007. Impietoso il confronto con l’Europa: in Germania il tasso di occupazione è vicino al 47%, in Francia al 32%, in Spagna al 26,2%. Come si vede, la percentuale di giovani italiani che lavorano è non solo meno della metà di quella dei coetanei tedeschi, ma inferiore persino a quella degli spagnoli, che pure scontano un tasso di disoccupazione giovanile del 46% (luglio 2011). A completare il quadro, quasi 2 milioni di persone, in gran parte giovani, sono inattive: non studiano né lavorano né sono inserite in un programma di formazione. L’ANALISIMa che impatto hanno avuto sui giovani le riforme del mercato del lavoro? Al quesito risponde uno studio elaborato da Cristina Tealdi, assistant professor in Economia del lavoro all’Imt di Lucca, che verrà presentato oggi alla "National Conference of Labour Economics", organizzata dai docenti dell’Università Cattolica Lorenzo Cappellari, Carlo Dell’Aringa e Claudio Lucifora presso l’Ateneo milanese, in collaborazione con l’Associazione italiana economisti del lavoro (Aiel). «Dall’analisi dei dati forniti dalla Banca d’Italia e dall’Inps – spiega la ricercatrice – si deduce che i lavoratori assunti con un contratto temporaneo sono perlopiù giovani, donne e persone alle prime esperienze lavorative. E che la maggior parte dei "precari" possiede o un basso livello di educazione oppure si tratta di laureati dotati di limitata esperienza lavorativa». Gli svantaggi per questa porzione di popolazione sono netti. Considerando i lavoratori con la medesima esperienza, qualificazione e caratteristiche individuali, infatti, coloro che sono assunti con contratti temporanei percepiscono in media stipendi di circa il 20% inferiori rispetto ai dipendenti con contratto permanente. «Nel 1995 il 30% dei lavoratori temporanei erano alla loro prima esperienza professionale e solo l’8% di questi transitava da un precedente contratto temporaneo – sottolinea la ricerca –. Nel 2003 appena il 3% dei lavoratori temporanei era alla prima esperienza lavorativa, mentre l’85% proveniva da un precedente contratto temporaneo. Dopo la prima esperienza lavorativa con un contratto temporaneo, nel 2003 il 90% dei lavoratori italiani sono stati assunti con un nuovo contratto temporaneo o hanno riempito le file della disoccupazione».CHI PAGACristina Tealdi, 30 anni, per il suo studio ha quindi utilizzato i modelli di analisi del mercato del lavoro proposti dal relatore della sua tesi di dottorato, il premio Nobel per l’economia 2010 Dale Mortensen, così da identificare il cambiamento di reddito dovuto all’introduzione dei contratti di lavoro temporanei per diverse categorie di lavoratori. «Uno dei risultati più importanti – spiega – è che i lavoratori giovani, laureati (o con un livello educativo superiore) e alle prime esperienze lavorative, che avrebbero dovuto beneficiare delle riforme, sono invece coloro che oggi pagano il prezzo più elevato. A causa di salari più bassi e dei molteplici cicli di lavoro temporaneo e disoccupazione, infatti, queste categorie di lavoratori vedono il loro reddito notevolmente ridotto e sono fortemente penalizzati. Solo dopo aver maturato anni di esperienza lavorativa, infatti, i giovani, se sufficientemente produttivi, sono in grado di ottenere un contratto permanente e compensare le perdite sostenute a inizio carriera. Quelli meno produttivi, invece, sono destinati a essere assunti solo per brevi periodi con salari ridotti e finiscono con maggiore frequenza nelle fila della disoccupazione, godendo inoltre di una limitata protezione sociale». Eppure proprio la maggiore flessibilità introdotta anche grazie ai contratti a termine e alle tipologie di lavoro non standard ha avuto il merito di incrementare il tasso di occupazione, in particolare delle donne. «È certamente vero – risponde la ricercatrice – ma da una parte non c’è stata una regolamentazione efficace e adeguata di questi strumenti e dall’altra, soprattutto, la mancanza di controlli ha favorito l’abuso da parte delle aziende. I giovani e le fasce più deboli della forza lavoro sono costrette così ad assorbire e a pagare il costo della flessibilità. Che resta necessaria, ma andrebbe "spalmata" sulla generalità dei lavoratori in modo razionale, per incrementare la produttività oggi in forte declino in Italia».
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