venerdì 20 febbraio 2015
Assopopolari: il governo ha avviato un processo di de-mutualizzazione.
Padoan: per le Bcc basterà l’autoriforma
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Una giornata convulsa quella di ieri, dove non sono mancati toni duri tra le parti in gioco. La riforma delle banche popolari continua a creare preoccupazione, come si è visto nel corso dell’audizione alla commissione Finanze della Camera sul contestato decreto legge in materia. Assopopolari, che continua a temere l’arrivo di speculatori stranieri, è stata "affiancata" da Rete Imprese Italia e sindacati, mentre mercoledì l’Antitrust, per bocca del suo presidente Giovanni Pitruzzella, si era espressa positivamente sulla riforma.I vertici dell’associazione che raggruppa le popolari sono stati molto critici: arriveranno «soggetti dai connotati speculativi» ha detto il presidente Ettore Caselli, che alla forma cooperativa come handicap per la raccolta di capitali stigmatizzata martedì da Bankitalia ha contrapposto i dati: 9 miliardi di euro in ricapitalizzazioni negli ultimi tre anni. Nonostante ciò, il governo ha deciso di avviare «un processo di de-mutualizzazione», ha detto Caselli.. Il presidente del Banco Popolare, Carlo Fratta Pasini, ha rincarato la dose: gli istituti diverranno «filiali di gruppi stranieri» e avremo «altre 7, 8 o 10 Bnl e Cariparma» controllate da gruppi esteri. «Chi in Italia può investire nel capitale – ha detto – visto che non abbiamo fondi pensione e le fondazioni hanno limiti sugli investimenti? Solo i gruppi esteri». Per Andrea Moltrasio (Ubi) «la forma del decreto non lascia un tempo adeguato»; ma soprattutto «va respinta la semplificazione "spa uguale buona governance"». Anche Mauro Bussoni, segretario generale di Confesercenti (in rappresentanza di Rete Imprese Italia) ha ribadito i due rischi maggiori, ovvero l’arrivo di operatori stranieri «che perseguono ben altre finalità» e una «riduzione delle risorse destinate ai piccoli imprenditori locali». Su quest’ultimo aspetto si è soffermato il presidente del consiglio di sorveglianza della Bpm, Piero Giarda: le banche straniere potrebbero infatti approfittare del decreto legge, essendo interessate «non tanto ai loro finanziamenti, ma alla gestione della massa finanziaria da dove si può guadagnare di più», in quanto le banche popolari si trovano nei «territori più ricchi d’Italia con famiglie che hanno una elevata propensione al risparmio» e aiutano «le migliori Pmi che competono sui mercati internazionali». Sergio Girgenti (Fiba-Cisl) ha infine lanciato l’allarme occupazionale: le eventuali fusioni potrebbero portare a 20mila esuberi. Quello che si va intravedendo è un compromesso che introdurrebbe una misura anti-scalata: un limite al diritto di voto, fra il 3 e il 5% da inserire negli statuti delle popolari trasformate in società per azioni, una misura approvata con riserva anche dalla Banca d’Italia. Un correttivo che via Nazionale aveva ammesso, nella sua audizione, purché fosse rimovibile in caso di necessità di raccogliere capitali in fretta, e temporaneo per gestire la transizione, bocciando altre misure che possano snaturare la riforma, prima fra tutte il voto capitario. Con un tetto, si sta ragionando, le banche popolari potrebbero consolidarsi fra loro raggiungendo una massa critica difficile da scalare. Prima di tutto però servono appunto norme che mantengano, almeno nella fase iniziale, la public company evitando il passaggio del controllo per decreto.Intanto manca una settimana alla scadenza della presentazione degli emendamenti, fissata per giovedì prossimo; emendamenti che saranno votati in commissione tra il 2 e il 6 marzo, per approdare in aula nella settimana tra il 9 e il 13.
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