sabato 4 luglio 2015
​L'evoluzione dei 312 miliardi che zavorrano Atene. Il peso trasferito dalle banche private ai governi.
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Se la grande tragedia greca è arrivata al punto in cui siamo, non è certo per decidere il regime dell’Iva a Mykonos e sulle altre isole. Il vero macigno che ha ostacolato la chiusura dell’infinita partita a poker fra il governo ateniese e la ex Troika riguarda un capitolo preciso: il debito pubblico della Grecia. Un punto fermo confermato giovedì da Yanis Varoufakis, il controverso ministro delle Finanze (quando ha ribadito: «Non firmeremo nessun accordo senza la ristrutturazione del debito»), e ieri direttamente dal premier Alexis Tsipras che ne ha chiesto in modo esplicito un «taglio del 30%». Quasi un terzo in meno per una mole che – stando a dati aggiornati al 31 marzo – ammonta a 312,7 miliardi di euro (ma ora potrebbe essere salita a 340), che pesa però per quasi il 180% rispetto al Prodotto interno lordo locale. Su questa montagna di soldi sta cercando di far luce lo stesso Parlamento greco: ad aprile, sulla spinta di Syriza, ha insediato una Commissione per la verità sul debito (presieduta dal belga Eric Toussaint, del Cadtm, il comitato per l’annullamento del debito al Terzo mondo). I contenuti del rapporto preliminare sono stati messi on-line il 18 giugno e raccontano squarci di verità non sempre approdati sui media. In tutte le grandi storie – come lo è questa cominciata a fine 2009, quando il premier socialista Papandreou annunciò che i governi precedenti avevano truccato i conti –, accanto alle date 'storiche' ce ne sono altre meno note, ma altamente significative. È il caso del 9 maggio 2010 quando, nelle riunioni del Fondo monetario internazionale chiamato a discutere del primo programma d’aiuti alla Grecia, l’esponente brasiliano Paulo Nogueira Batista avvertì che quel salvataggio da 110 miliardi era «ad altissimo rischio», perché «concepito solo per salvare le banche europee, e non la Grecia». In quelle parole del brasiliano Batista (i verbali Fmi sono disponibili su Internet) sta la risposta a quello che molti, a livello di opinione pubblica – e nei social network –, si chiedono in questi giorni: ma tutti i soldi dati alla Grecia in questi anni non sono serviti a niente?  La realtà è che sono stati destinati a una ricomposizione profonda del portafoglio dei detentori dei cosiddetti 'Sirtaki bond'. Se all’inizio della crisi una quota consistente era in mano ai privati – e, principalmente, alle banche tedesche e francesi –, oggi il quadro è ben diverso: prima di tutto, dei 312 miliardi complessivi, sul mercato se ne trovano 'solo' 81,5 (di questi, peraltro, 15 miliardi sono 'note a breve termine', uno strumento con cui Atene – che non può più emettere titoli per via del suo quasi default – si finanzia a breve termine, e senza pagare interessi). Fra queste posizioni spiccano i fondi d’investimento del gruppo americano Pimco, che avrebbero ancora oggi investito in Grecia quasi un miliardo, mentre Putnam sarebbe limitato a 500 milioni. Il restante 74% non è scambiabile ed è in mano a soggetti istituzionali: per circa 205 miliardi dall’Europa (fra Bce, Fondo salvastati e prestiti bilaterali dei governi nazionali), più una ventina di miliardi circa detenuti dal Fmi e altri 4 miliardi 'gestiti' dalla Banca di Grecia. Insomma, dei quasi 250 miliardi arrivati ad Atene grazie ai due programmi di aiuti finora attuati (il secondo fu da 130; ora si stava discutendo il terzo piano), solo di circa 27 miliardi, pari all’11% del totale, si può dire che sono finiti direttamente nelle tasche del popolo greco, per finanziare il deficit o per altre necessità di cassa. Secondo la ricerca svolta dal centro di analisi MacroPolis, la stragrande maggioranza è servita per far fronte a esigenze e richieste del mondo finanziario, a partire dagli 81,3 miliardi impiegati per rimborsare emissioni in scadenza.  Vuol dire che i soldi che 'noi europei' – tramite gli organismi di Bruxelles e Francoforte – abbiamo dato alla Grecia sono finiti nei bilanci di banche, società d’investimento e istituzioni finanziarie, che in precedenza avevano prestato fondi ai greci senza magari guardare troppo alle garanzie fornite. Questa considerazione non assolve i greci dalle loro responsabilità, dall’aver fatto molto ma non abbastanza nel rinunciare a uno Stato sociale 'abnorme' e nel realizzare riforme e risparmi di spesa che erano loro chieste da anni. Inoltre, va da sé che se non ci fosse stato il primo aiuto il fallimento delle finanze pubbliche di Atene si sarebbe materializzato già 5 anni fa. Né si può dimenticare che il fronte dei creditori ha già sopportato una prima, gravosa rinuncia: nel febbraio 2012 diventa evidente, infatti, che la zavorra posta sulle casse di Atene non è sopportabile e l’Europa si accorda su un taglio di 107 miliardi del debito, tramite la riduzione del 53% del valore dei titoli (è l’haircut), che fu accompagnato da un taglio retroattivo degli interessi per i prestiti dei paesi Ue. Solo così si è evitato che il valore dei prestiti schizzasse al 240% del Pil greco, mentre le misure di austerità previste dai memorandum collegati agli aiuti imponevano sacrifici alla popolazione.  È un dato di fatto, comunque, che la finanza privata è stata aiutata (dai salvataggi operati dagli altri Stati) a liberarsi dei suoi crediti limitando al minimo le perdite, potenzialmente accollate ora sui governi della Ue. Soprattutto la Germania di Merkel e Schaeuble ha ridotto di oltre il 70% l’esposizione verso Atene dei soggetti privati: questi, a dicembre 2009 avevano crediti per 45 miliardi di dollari, che 5 anni dopo si erano ridotti a 13,5 (mentre nel frattempo lo stato tedesco si è esposto per oltre 60 miliardi di euro). La storia non si costruisce con i 'se', ma vale la pena notare che 5 anni fa quello stesso Fmi (o almeno parte di esso) oggi divenuto più radicale nell’affrontare la vicenda greca al piano di aiuti preferiva sin da subito una ristrutturazione radicale del debito greco (in parte avuta poi nel 2012), sostenendo che aiuti così ingenti avrebbero soltanto reso quel debito – all’epoca forse ancora sostenibile – definitivamente insostenibile, come è ora. Per molti analisti è stato proprio quel tempo perso all’inizio della crisi a favorire il tracollo. Ancora ieri, per comprare un bond di Atene con scadenza a 2 anni si pagava oltre il 30% meno del prezzo di rimborso a 100 (grosso modo il valore indicato da Tsipras). Segno che anche i mercati credono che, probabilmente, se questa Europa vorrà avere un futuro da una ristrutturazione del debito si dovrà comunque ripartire.
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