domenica 8 marzo 2015
Il manager Andrea Guerra, ex ad amico di Renzi, ispira il no alle modifiche. Il caso del tetto del 5%: il limite al diritto di voto presente anche in grandi banche. Il testo è destinato in settimana al sì della Camera.
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A tirare i fili - nemmeno troppo dietro le quinte - della riforma delle banche popolari, che da mercoledì si avvia a ricevere il primo sì alla Camera, è una figura sempre più 'pesante' a Palazzo Chigi. È stato d’altronde Matteo Renzi in persona a raccontare (durante una puntata di 'Virus' su RaiDue, il 19 febbraio) che l’ispiratore di questo intervento legislativo è stato lui, il creatore di quella che si può definire la nuova «merchant bank» (definizione coniata dall’avvocato Guido Rossi per lo staff del governo D’Alema, alla fine del millennio scorso) di Palazzo Chigi: Andrea Guerra, passato in pochi mesi dall’incarico di ad di Luxottica a una sorta di 'ministro-ombra'. È stato lui, più ancora che Renzi o lo stesso ministro dell’Economia Padoan, a volere - in modo anche un po’ affrettato questa riforma che obbliga le 10 popolari con un attivo superiore a 8 miliardi di euro a rinunciare alla forma cooperativa e a trasformarsi in società per azioni entro 18 mesi. E si vocifera che sia stato lui (che nei mesi scorsi si è occupato anche del dossier Ilva) il più fermo nello stabilire che la linea del governo deve consistere nell’opporsi a ogni possibile cambiamento del testo in Parlamento, a partire da quel voto capitario (una testa, un voto) destinato a scomparire in questi 10 istituti. Ha dettato una linea drastica che avrebbe provocato più di qualche malumore nel resto della compagine governativa. Un’opposizione significativa dato che il giro di boa a Montecitorio rischia di essere quello definitivo: al Senato si dà già per certo che anche la ferma opposizione della 'sinistra' del Pd e di parte del Ncd sarà debellata ponendo la questione di fiducia (il decreto va convertito entro il 25). Peraltro, mentre continua a circolare soprattutto a livello accademico l’ipotesi di uno scorporo dell’azienda bancaria dalla coop (che resterebbe tale), la maggiore modifica approvata finora presenta una contraddizione non da poco, che merita di essere sottolineata. Stiamo parlando della clausola che limita al 5% (o oltre, se così deliberato dai soci) l’esercizio dei diritti di voto per 24 mesi. A essa aveva 'aperto' anche Salvatore Rossi, direttore generale di Banca d’Italia, nell’audizione del 17 febbraio, precisando però che dovrebbe essere «derogabile di fronte alla necessità di un tempestivo ricorso al mercato dei capitali». E Marco Causi, il relatore (Pd) del decreto, l’ha rivendicata come una misura che «tiene al riparo, durante la fase di transizione, da eventuali scalate ostili». Un’ossessione, quella della 'scalabilità' di questi nuovi istituti postriforma, che ha segnato un po’ tutto l’iter. Ebbene, va ricordato che - solo per fare un esempio - Unicredit, prima banca italiana e una fra le maggiori in Europa, il tetto proprio al 5 per cento lo ha da moltissimo tempo. E nessuno, pur essendo una Spa per antonomasia, ha mai pensato di chiedere una rinuncia a Piazza Cordusio. Delle due l’una: se può continuare a valere per Unicredit, non si comprende perché per le popolari debba essere un limite a tempo.
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