giovedì 5 marzo 2015
INCHIESTA Ecco il piano da 3 miliardi di investimenti. Ottomila assunzioni, ma le consegne saranno sempre più diluite.
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È un futuro, quello di Poste, condizionato dal passato. Il vecchio, tradizionale 'ente pubblico' (ormai una Spa dal 1998) oggi proiettato allo sbarco in Borsa - per il 40% del capitale –, si trova a fare i conti con un’eredità che pesa. E comincia già a rimuoverla. L’immagine dei sacchi pieni di corrispondenza diventa sempre più rarefatta. L’avvenire è fatto di Web, mercato digitale, ecommerce, conti bancari, telecomunicazioni e mercato finanziario. La conseguenza più evidente, per i cittadini, sta nel Piano strategico 2015/2019 che, accanto a 3 miliardi di investimento, prevede la chiusura di oltre 450 sportelli postali, i più piccoli, la riduzione degli orari di apertura in 600 uffici e la consegna della posta sempre più diluita (già oggi, peraltro, non avviene sempre tutti i giorni in diverse realtà italiane, come sanno molti abbonati ai giornali). Una penalizzazione pesante per molti piccoli paesi, dove l’ufficio postale è essenziale per gli anziani che devono ritirare la pensione o fare un pagamento. Eppure sul punto Francesco Caio, l’ad che guida Poste dal 2 maggio scorso, è stato esplicito: secondo un sondaggio commissionato nei mesi scorsi dall’azienda, i 2/3 degli italiani sarebbero 'molto o abbastanza soddisfatti' anche di una posta recapitata un giorno sì e uno no.  La posta da consegnare è un caso di decrescita infelice per l’azienda. I conti del 'servizio universale' (dizione ufficiale dell’obbligo di recapitare la corrispondenza ogni giorno in ogni parte d’Italia) presentano costi per 1,3 miliardi l’anno, compensati solo per 250 milioni dai trasferimenti ricevuti dallo Stato. Un 'buco' che induce a riposizionare il core business societario, che si sta orientando sempre più sulla logistica, la consegna dei pacchi, destinata a svilupparsi soprattutto se prenderà piede l’acquisto su Internet delle merci (Poste ha già degli accordi con Amazon): oggi questo comparto è molto frammentato e la quota di Poste, presente anche con la controllata Sda, non supera il 10%, ma l’obiettivo – ambizioso – è arrivare al 30%.  È solo la 'punta' del piano industriale che, anche ricorrendo a 8mila nuove assunzioni e col traguardo fissato a 30 miliardi di ricavi annui (fattibile, se si pensa che sono stati 26,3 nel 2013 e 15 solo nel primo semestre 2014), punta a consolidare quel nuovo volto all’ex'carrozzone' già plasmato durante le lunghe gestioni dei precedenti ad Corrado Passera e Massimo Sarmi. Un gruppo forte di 13.300 sportelli e di 143mila dipendenti incentrato, accanto alla corrispondenza e alla logistica, sul pilastro 'numero uno': il tradizionale risparmio postale, la cui raccolta ha toccato nel 2014 la super-quota di 420 miliardi di euro, dei quali 320 sono gestiti dalla Cassa depositi e prestiti. Il resto è dovuto soprattutto alle assicurazioni sulla vita, comparto diventato in pochi anni il fiore all’occhiello di tutto il gruppo: Poste Vita, nata nel ’99 e guidata da Maria Bianca Farina, è balzata in vetta alla graduatoria delle assicurazioni, con una raccolta premi di 13,17 miliardi nel 2013 che gli ha fatto conquistare il 15% del mercato, superando in soli 13 anni il primato ultracentenario di Generali. E con un apporto crescente al risultato aziendale di gruppo prima delle imposte (l’Ebit) più che raddoppiato negli ultimi 2 anni: dai 199 milioni del 2011 ai 411 del 2013, confermati dai 220 milioni registrati nel primo semestre 2014. Si tratta di un fenomeno senza pari a livello mondiale, con l’unico neo di un’indagine della Consob (relativa però al biennio 2011/13) che rilevò alcuni difetti nella valutazione dell’attitudine al rischio dei clienti. Per fare un raffronto, il comparto postale è passato invece da un Ebit negativo di 202 milioni nel 2011 a uno addirittura di 631 due anni fa, 'mangiando' in pratica i margini ottenuti negli altri settori. Una buona fetta di ricavi la assicurano anche i servizi finanziari e di pagamento raggruppati in 'BancoPosta', arrivati a 5 miliardi e segnati – dopo il successo dei 13 milioni di carte prepagate Postepay – dal lancio di 'Evolution', la nuova carta con codice Iban che assorbe le funzioni di un normale conto corrente. In assestamento è invece PosteMobile, l’operatore telefonico virtuale con oltre 3 milioni di Sim attive (anche per servizi di pagamento): l’anno scorso ha visto ridursi al 47,4% la quota di mercato. Restano da valutare due partecipazioni: quella della Banca del Mezzogiorno e il controverso ingresso, un anno fa, nel capitale di Alitalia-Etihad, da studiare anche in relazione al fatto che Poste ha già il 100% di un’altra compagnia aerea, Mistral Air (sul punto sono in corso colloqui col nuovo management di Alitalia). Nell’era digitale, insomma, la società si sta reinventando con l’apertura di nuovi fronti. Un’esigenza resa ancor più necessaria dalla prospettiva del collocamento a Piazza Affari. Agli investitori vanno offerte prospettive di rendimento sicure e un’azienda 'zavorrata' dalle perdite crescenti nella corrispondenza rischia di non essere di grande attrattiva. Decisivo sarà anche il capitolo del ricambio e dei costi del personale, da ridurre senza ricorrere a drastici tagli occupazionali. Per questo Caio ha in corso col ministro dell’Economia, Padoan, una delicata trattativa per rivedere il contratto di programma: Poste vuole una 'rivalutazione' del contributo versato dallo Stato che tenga conto della diminuzione della posta recapitata, il ministero vorrebbe non aumentare troppo i rimborsi. Il Tesoro punta a un incasso di 3-4 miliardi circa dalla privatizzazione, ma intanto i tempi si sono allungati, dal 2014 a quest’anno. Forse nella partita ha pesato anche il repentino cambio del direttore finanziario: lo scorso giugno Caio aveva scelto Luigi Calabria (ex Finmeccanica), a gennaio promosso poi ad altro incarico per far arrivare (dall’Enel) Luigi Ferraris. Il rischio da evitare resta uno, comunque: che, per non tagliare gli altri costi operativi, si finisca con l’infierire ancora di più sui servizi offerti.
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