mercoledì 5 ottobre 2016
Nuovo rapporto dell'Inps conferma i sospetti: i voucher sono una leva per il lavoro nero. (Francesco Riccardi)
L’Inps: i voucher una leva per il «nero»
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La frase è un po’ articolata e barocca, ma il significato è chiarissimo: «È evidente la convivenza, nell’ambito del grande contenitore denominato “lavoro accessorio”, di situazioni eterogenee: accanto a un nucleo consistente di situazioni in cui il minuscolo voucher giornaliero fatica a mascherare il suo ruolo di leva archimedea per supportare prestazioni di lavoro nero, esistono altre situazioni, non proprio residuali, in cui la remunerazione tramite voucher è individuata dal committente come lo strumento più semplice per prestazioni anche di elevato contenuto professionale...».

Insomma, ci sono certo «quasi 100.000 lavoratori che hanno percepito mediamente oltre 20 voucher (150 euro netti) per giornata di attività», ma la gran parte degli 1 milione e 380mila percettori di buoni lavoro da 10 euro in realtà opera 'in nero' per molte più ore di quelle pagate con i voucher e le aziende utilizzano questo strumento per mettersi al riparo da leggi e sanzioni. Ciò che finora era un sospetto – per quanto fondato sulle esperienze raccolte tra i lavoratori (si veda Avvenire del 1 ottobre e http://tinyurl.com/jy8hx59) – è scritto ora nero su bianco in un approfondito studio pubblicato lunedì dall’Inps. Il rapporto, che sviluppa e amplia una prima rilevazione del maggio scorso, conferma che si può «pensare ai voucher come la punta di un iceberg: segnalano il nero, che però rimane in gran parte sott’acqua», sfatando il mito che i buoni abbiano contribuito all’emersione delle attività non regolamentate, se non in «minuscola parte».

Anche perché oggi i voucher non sono utilizzati, se non in maniera residuale, da famiglie, quanto invece da aziende, anche di grandi dimensioni, e non tanto per i lavoretti artigianali 'accessori' per i quali erano stati pensati, ma anche per le più svariate attività facenti parte dell’oggetto sociale stesso delle imprese. 

Ciò è stato reso possibile dalle modifiche normative via via intervenute e che hanno, tra l’altro, eliminato il termine di «attività meramente occasionali » che originariamente caratterizzava i buoni lavoro. C’è da chiedersi allora, se sia ancora lecito inquadrare come 'lavoro accessorio' friggere le patatine in un fast food, fare la commessa in un negozio o rassettare le camere in un albergo o se invece tutte queste attività – tipiche – non debbano essere svolte con altri strumenti contrattuali: a termine (anche brevissimo) o in somministrazione. 

Meno netto è però il giudizio dei ricercatori Bruno Anastasia, Saverio Bombelli e Stefania Maschio riguardo appunto alla sostituzione di altri contratti. O meglio, i voucher sono per gli autori «il naturale erede» delle forme di collaborazione rese meno praticabili con il Jobs act, mentre solo in parte sostituiscono contratti a termine stagionali e contratti intermittenti, utilizzati in gran parte nel turismo e nella ristorazione.

Di questi ultimi, più che dimezzati negli ultimi anni, potrebbero seguire la sorte se verranno introdotte nuove restrizioni oltre le comunicazioni obbligatorie decise con l’ultimo decreto approvato a fine settembre. Nello studio c’è infine un ultimo punto che merita una considerazione. Il guadagno dei lavoratori con i voucher nell’84% dei casi non arriva al minimo contributivo di un mese per valere ai fini dell’anzianità.

Significa che le cifre versate, pur ridottissime, non vengono perdute (finiscono nel calderone della gestione separata) ma per conseguire il diritto alla pensione (20 anni minimo) e per calcolare l’anzianità contributiva si deve comunque aspettare di avere un lavoro. Uno vero.

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