domenica 8 marzo 2015
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Le polemiche che stanno scuotendo il mondo bancario, legittimano preoccupazione. Mentre l’economia stenta a ritrovare la via della crescita, è difficile attribuire un’etichetta positiva alla probabilmente improvvida e sicuramente precipitosa decisione governativa (decreto- legge), di mutare lo statuto delle dieci principali banche popolari in società per azioni.  Razionalizzare, «modernizzare» questi istituti con alle spalle una operosa tradizione spesso secolare, è la scelta governativa. Ad essa viene spontaneo controbattere: perché tanta fretta, essendo la questione sul tappeto da lustri? Lo hanno scritto, mettendoci la faccia, ben 163 economisti di vaglia, fra i quali spiccano accademici quali Leonardo Becchetti e Giovani Ferri, nonché Claudio Polselli della Banca d’Italia. Nel documento si evidenzia l’improprietà tecnica di considerare il cooperativo-popolare un handicap allo sviluppo, nel contempo contestando la tesi che le banchespa vanno meglio. Ben diversa la realtà, con le Popolari (meno succubi della logica del profitto), meglio adatta a sostenere l’economia reale italiana, imperniata su un microtessuto di piccolemedie imprese. Che qualche Popolare abbia deragliato dai principi, non è un mistero. Vogliamo però anche chiederci, senza compiacenze, se davvero hanno fatto meglio le Grandi banche? A leggere i listini di Borsa, le cronache finanziarie, il cahier degli scandali, parrebbe proprio che le Popolari non temano il raffronto. Tanto più che in questa difficile stagione sono state in prima linea nel sostenere le piccole-medie imprese.  Mentre, in qualche caso, le «Grandi», hanno privilegiato il business speculativo. Guardando in avanti, non è comunque il tempo d’imbastire processi a questa o quella struttura societaria. Consapevoli tuttavia che le Popolari (al pari delle Casse di Risparmio d’una volta), sono state le protagoniste del «miracolo italiano ». E poiché la storia non è acqua, sarà bene riflettere: il tempo c’è, essendo il decreto-diktat sbarcato in parlamento per l’approvazione finale.  Il ricordo del passato può aiutare a non commettere errori. Restando coi piedi per terra, anziché inseguire fantasiose riforme delle quali è difficile comprendere l’urgenza a meno d’imbastire processi alle intenzioni, viene alla mente l’Italia del dopoguerra, e sino agli anni Novanta. Un periodo che suscita struggenti rimpianti, al solo rievocare come sullo scacchiere internazionale fossimo la Quinta potenza mondiale. Governatore della Banca d’Italia Guido Carli, massimi banchieri Raffaele Mattioli fino agli anni Settanta dominus della Comit, Enrico Cuccia artefice del Mediobanca, Giordano Dell’Amore al timone della Cariplo, la più potente Cassa di Risparmio del mondo. Il concetto di pluralismo bancario (guardando alla sostanza, per nulla alle etichette), era la loro bussola. «A ciascuno il suo mestiere», era uso ripetere il Governatore Carli. «Quel che contano sono i risultati, il bene del Paese».  Così la Mediobanca di Cuccia divenne il salotto di un capitalismo che rialzava la testa dopo l’asfittica stagione dell’autarchia mussoliniana. E fu lui a portare in Mediobanca (fondata nel 1946) oltre al fior fiore dell’imprenditorialità (dagli Agnelli ai Pirelli), alcuni azionisti stranieri, facendo cadere le barriere protezionistiche ma tenendo ben salde le redini. Dalla Commerciale di piazza Scala, Raffaele Mattioli, in buona sintonia con l’ex allievo Cuccia, finanziava le grandi imprese, le opere pubbliche che, a cominciare dall’Autostrada del Sole, facevano compiere all’Italia un autentico salto di qualità. Poi, Giordano Dell’Amore, gran banchiere cattolico. Dalla Cassa di Risparmio (Cariplo), pilotò la ricostruzione di Milano e della Lombardia, puntando non sull’alta imprenditorialità e l’alta finanza (che volentieri lasciò agli amici Raffaele Mattioni ed Enrico Cuccia, quasi in una divisione concertata di compiti), bensì sul tessuto della piccola industria, dell’artigianato, del commercio. Dell’amore, cattolico impegnato, vicino al cardinale Ildefonso Schuster e ad Amintore Fanfani, ad Enrico Mattei e Giorgio La Pira sindaco di Firenze, passerà alla storia con la maiuscola come l’ispiratore dell’operosità italica. Dando vita al Mediocredito Lombardo che farà da modello al paese, in totale sintonia con le allora «piccole banche» locali: rispettate e talvolta coccolate quale anello di felice congiunzione fra le diverse anime dell’imprenditorialità. Perché allora, con un frettoloso decreto-legge, seppellire un tale patrimonio? L’auspico è che in Parlamento si raggiunga un costruttivo compromesso, in grado di coniugare la tradizione con le nuove esigenze del settore creditizio.
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