sabato 1 ottobre 2016
Via la sanzione dell’assunzione, la tracciabilità non basterà. Lo scorso anno i buoni lavoro venduti sono stati 115 milioni per quasi 1,4 milioni di lavoratori.
Voucher lavoro, così il boom resta senza freni
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Mario ha 53 anni, due braccia forti e una pensione che vede allontanarsi. «Ho lavorato per 35 anni come operaio agricolo, poi l’azienda ha chiuso e da allora non ho più trovato un lavoro regolare», racconta. «Giro nei bar, qui in Veneto, dico che sono disponibile e trovo quasi sempre qualcosa da fare. Ma solo con i buoni lavoro e in nero. Negli ultimi due mesi ho guadagnato 187,5 euro con i voucher e circa 750 euro in contanti.

La paga 'vera' sono 4 o 5 euro l’ora, i buoni servono solo a 'coprire' il nero in caso di controlli». Federica invece di anni ne ha 26. Spigliata e gentile l’hanno presa subito nel negozio in franchising di un grande centro commerciale. Solo che dopo qualche mese si è chiesta: «Perché io vengo pagata solo con i buoni lavoro, non ho diritto a nulla, mentre le altre commesse sono dipendenti con un regolare contratto? ». E così si è rivolta alla Cisl di Bergamo che sta seguendo la vertenza per farla assumere.

Più o meno lo stesso ragionamento di Marta, 24 anni, sempre più sconsolata: «Ho sempre fatto la 'stagione' lavorando come cameriera nelle pensioni della riviera romagnola, ma da un paio d’anni trovo solo impieghi pagati con i buoni lavoro e un po’ di fuori busta. Non solo mi pagano meno, ma prima con il contratto stagionale, quando terminava, avevo almeno diritto al sussidio di disoccupazione per qualche mese ed ero più tranquilla, ora invece non ho niente». 

 Sono solo tre storie emblematiche di un fenomeno, quello del lavoro retribuito con i voucher, nati per regolarizzare le piccole prestazioni accessorie e occasionali, che ha raggiunto ormai enormi dimensioni, con conseguenze sociali nell’immediato di impoverimento dei lavoratori e nel lungo periodo di uno strutturale peggioramento della natura stessa del lavoro e dei rapporti che esso determina. I numeri parlano da soli: lo scorso anno sono stati venduti oltre 115 milioni di buoni da un’ora, del valore lordo di 10 euro e netto di 7,5 euro per chi lo riceve.

Quasi il doppio di quelli venduti nel 2014 (vedi grafico) e oltre dieci volte tanto quelli diffusi cinque anni prima. Lo scorso anno sono stati retribuiti con i buoni 1 milione e 380mila persone: il 14% circa di studenti, 8% pensionati, 41% disoccupati e un 37% di già occupati, dipendenti in altre aziende, parasubordinati o autonomi. Il trend è di costante aumento dei lavoratori coinvolti, con progressivo abbassamento dell’età media (ora 36 anni) e un compenso che resta stabile, in media, a poco più di 60 buoni l’anno, meno di 500 euro netti all’anno. 

 Un’analisi svolta a maggio da Inps e Veneto Lavoro svela come ogni anno il turn over sia piuttosto elevato con il 60% di nuovi ingressi, mentre il tasso di ripetizione, cioè chi resta dopo il primo anno a ricevere voucher è circa il 50%. Ma soprattutto c’è già una quota di lavoratori, pari al 20% che una volta entrati nel sistema dei buoni lavori è rimasto a lungo. Uno zoccolo duro, insomma, di poco meno di 300mila persone 'intrappolate'.

È interessante notare come la stragrande maggioranza – l’82% dei prestatori – abbia un solo committente. Segno che l’attività non è occasionalmente prestata ora qui ora là, ma è concentrata presso un’unica azienda. Sul fronte dei datori di lavoro, in appena due anni sono raddoppiati, i prestatori sono aumentati del 137% e i voucher del 142%. Un’esplosione, appunto, in particolare in Liguria, Puglia e Calabria, con i settori del turismo, del commercio, dell’agricoltura e dell’edilizia a segnare gli incrementi maggiori. Il ricorso ai buoni lavoro è per il 64% dei committenti 'marginale': utilizzano il 15% di voucher e ingaggiano meno di 5 lavoratori all’anno.

Ma c’è un 11% di datori che ne fa un uso 'estensivo' assommando il 24% dei buoni venduti e soprattutto un 3% di aziende che ne fa un uso assai 'rilevante' distribuendo addirittura il 33% di tutti i buoni venduti a un numero superiore a 5 di lavoratori, con oltre 70 buoni di media per singolo prestatore. In particolare si segnalano 700 committenti che hanno retribuito oltre 50 lavoratori con più di 5.000 voucher. Se dunque si incrociano questi dati – monocommittenza, scarsa remunerazione media, uso rilevante in alcune aziende – si può dedurne almeno due portanti.

Tolta una (modesta) porzione di lavori effettivamente occasionali, il buono lavoro viene utilizzato da un lato per remunerare – e dare così una 'patente' di regolarità – ad attività svolte per la gran parte in nero e, dall’altro, come sostituto di altri contratti a termine o a chiamata, ai quali si ricorreva in precedenza in particolare per alberghi, ristoranti e servizi in genere. Un passo indietro rispetto alla tutela dei lavoratori, una pericolosa destrutturazione dei rapporti di lavoro, affidati a un 'buono' anziché a un 'contratto'.

Un’eterogenesi dei fini per uno strumento pensato e nato per far emergere dal nero attività marginali e divenuto invece la foglia di fico dietro alla quale 'legalizzare' sfruttamento e scarse tutele. La crescita progressiva della diffusione dei buoni va di pari passo con le modifiche alla normativa che ha via via aperto all’utilizzo da parte dei diversi settori economici (vedi box da sapere). Ma è soprattutto il combinato disposto tra questo e la cancellazione della «natura meramente occasionale» della prestazione con i voucher, avvenuta con il decreto 76 del 2013, che ha fatto letteralmente esplodere il fenomeno. 

Di fatto è come se si fosse concesso il via libera a qualsiasi datore di lavoro – dalla grande catena di distribuzione al datore domestico, dai fast food alla pubblica ammini-strazione, dall’impresa edile all’albergo – a utilizzare e pagare con i buoni lavoratori anche per l’attività specifica di quell’azienda in maniera più o meno continuativa. Con il solo limite delle soglie economiche: massimo 7.000 euro netti di guadagno per il lavoratore (2.000 euro per ciascun committente).

Di fatto un incentivo indiretto a ricorrere al nero, perché il lavoratore non può superare la soglia, ma il committente ha tutto l’interesse ad avere un lavoratore senza contratto, al quale non deve pagare ferie, ratei di tredicesima, formazione obbligatoria, versamenti a cassa edile o enti simili, ecc. Insomma, una manna.

È in questo quadro che si inserisce il faticoso tentativo di porre un freno da parte del governo, che sabato scorso ha finalmente varato il decreto sulla tracciabilità dei voucher. In estrema sintesi, il datore di lavoro dovrà comunicare via mail, telefono o sms almeno un’ora prima dell’inizio della prestazione di lavoro alla sede territoriale dell’ispettorato del lavoro i dati anagrafici del lavoratore l’ora di inizio e fine della prestazione, il luogo in cui avverrà (per i committenti agricoli, il riferimento è un arco temporale non superiore a 3 giorni).

È prevista una multa tra i 400 e i 2.400 euro per ogni lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione. In linea teorica si rende così più difficile ( il 'trucco' del pagamento solo di un’ora al giorno, seppure nella realtà occorrerà vedere se gli ispettori saranno effettivamente in grado di controllare incrociando migliaia di dati al giorno. Ma il vero nodo è che la multa (sempre riducibile al doppio del minimo) sostituisce la maxi-sanzione precedente che obbligava il datore di lavoro ad assumere per almeno 3 mesi il lavoratore irregolarmente retribuito con i voucher. Una norma con una deterrenza maggiore e soprattutto che offriva maggiore tutela al lavoratore, oggi neanche più incentivato a denunciare le situazioni irregolari.

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