domenica 7 febbraio 2016
Vecchi telai, filatura a mano: la "fabbrica lenta" per battere i cinesi
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MOLVENA ( Vicenza) - Una decina di anni fa l’azienda stava rischiando di chiudere, lasciando a casa duecento addetti. La crisi economica aveva ridotto di parecchio le vendite delle sue stoffe mentre l’industria tessile cinese continuava a inondare i mercati con prodotti cheap price. Poi, un giorno, l’illuminazione:  basta con la produzione in serie a buon mercato, finiamola con la scopiazzatura delle creazioni di pregio della tradizione italiana, visto che i cinesi sanno copiare meglio e più velocemente di noi. Per uscire dal buco nero della crisi, si era detto in una delle tante riunioni di famiglia nel quartier generale di Molvena, in provincia di Vicenza, l’impresa manifatturiera Bonotto deve recuperare il proprio patrimonio, vale a dire l’arte della manualità, il gusto per la ricerca, l’affascinante cultura artigianale che negli anni ha reso i tessuti made in Italy delle autentiche eccellenze nel mondo. E così nei vasti spazi della fabbrica guidata fino a pochi anni fa dal 75enne Luigi Bonotto – fra i massimi collezionisti al mondo di opere d’arte del movimento d’avanguardia Fluxus – , divenuto presidente dopo aver ceduto lo 'scettro' ai due figli, Giovanni e Lorenzo, alle macchine digitali vengono presto affiancati vecchi telai acquistati da fabbriche della zona chiuse per colpa della crisi; una volta ristrutturati e messi a norma, questi telai permettono all’azienda di riprendere la produzione di tessuti di alta gamma con filati pregiati, di recuperare lavorazioni ormai dimenticate e di ricominciare a fare utili.  Nasce così nel 2007 la «fabbrica lenta»: un concetto, e non solo un brand, che nelle intenzioni di Giovanni Bonotto, il suo ideatore, va a definire un possibile nuovo modello di industria manifatturiera. «Al centro non ci sono le velocissime e omologanti macchine industriali, ma le mani che con la loro cura e la loro sapienza sanno dar vita a piccoli pezzi d’arte a tiratura limitata», dice. Una sorta di rotta inversa rispetto al mercato, che ha consentito alla Bonotto spa di salvaguardare il tessuto storico, anche attraverso la creazione di un grande archivio tessile, e contestualmente di svilupparne e potenziarne le prestazioni.  È pensando ad una specie di cucina alchemica che sono nate le flanelle all’Amarone Masi della Valpolicella, il cammello albino al cacao Domori, il vello dello yak tibetano colorato con il caffè Illy, la ribollita di lana di pecora nera armena alla confettura di mirtilli Rigoni di Asiago, il pelo delle lepri della Patagonia al tabacco Kentucky, portate tra l’interesse generale all’edizione 2012 di Pitti immagine Uomo 81. «L’ultima chance della manifattura italiana è fare diventare i nuovi ricchi del mondo i primi clienti della nostra cultura: dobbiamo sedurli, farli innamorare del nostro Dna», è l’obiettivo dichiarato del marchio. Per il momento dei tessuti prodotti dalla fabbrica lenta (circa un migliaio di nuovi, ogni anno) vanno pazzi maison di moda del calibro di Hermes, Prada, Chanel, Louis Vuitton, Armani, Yves Saint Laurent, che li acquistano per valorizzare al meglio le loro creazioni.  «Ho cominciato negli anni ’70 e mi considero uno dei fautori del prêt-à-porter italiano», confida Luigi, l’amico degli artisti Fluxus e l’ideatore dell’unico esempio al mondo di fabbricamuseo, con le opere d’arte collocate dentro lo spazio produttivo, tra la curiosità degli artigiani e degli operai, tra i muletti, i telai, gli orditoi. «La de-costruzione tipica di quel movimento artistico è sempre stato un processo naturale per me, tanto da averlo applicato anche nel tessuto, sviluppando negli anni prodotti che hanno permesso, per esempio ad Armani, di creare le famose giacche de-costruite». Dopo alcuni anni vissuti sull’orlo di un precipizio a causa della crisi, «da qualche anno la Bonotto ha ripreso a camminare: la vendita al metro dei nostri tessuti è aumentata di 3 o 4 euro... e non è cosa da poco per prodotti che si vendono a 10 o a 15 euro al metro. Continuiamo ad innovarci per proporre al mercato le novità: creiamo trend, mescoliamo le fibre, facciamo ricerca. Il 13% del nostro fatturato, che si aggira sui 40 milioni di euro, lo investiamo proprio in questo», confida orgoglioso il presidente.  La sua azienda, nata agli albori degli anni ’70 dalla fabbrica di cappelli di paglia fondata nel 1912 da papà Luigi, appartiene a quella che egli chiama 'l’opera totale': una triade formata, oltre che dalla sua fabbrica, dall’arte, la sua grande passione di sempre, e dalla famiglia. «L’una ha influenzato l’altra. Ma poiché la Bonotto è ormai una realtà internazionale, non escludiamo l’arrivo, in un imprecisato futuro, di nuovi partner: una simile attività non può restare a conduzione famigliare», ammette. «Ho avuto la fortuna di avere un papà che mi ha sempre educato all’arte, alla bellezza, al rispetto del nostro patrimonio culturale: vedo invece che in Italia si fa molta fatica a comprendere che la sola strada per la salvezza passa proprio per questi concetti. Il mondo ha fame dei nostri prodotti... Ma lo sapete quanti clienti stranieri sono passati di qui e mi hanno detto, increduli: che buffi che siete voi italiani, noi veniamo qui per comperare i vostri prodotti e voi non li volete più fare?».
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