martedì 10 dicembre 2013
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Jean-Yves Masson, nato nel 1962 presso la frontiera franco-tedesca, vive a Parigi dove dal 2004 è docente di Letteratura Comparata alla Sorbona, proseguendo parallelamente la sua attività di critico letterario e di curatore e editore di letteratura straniera.  Poeta, oltre ai volumi di poesia è autore di un romanzo, racconti e molti saggi critici. Importantissima la sua opera di traduttore di alcuni dei maggiori poeti moderni, tra cui Rilke, Yeats e Luzi. In Italia ha pubblicato il volume di poesia Stanze della notte e del desiderio (Jaca Book, 2008) nella traduzione di Marco Vitale.Con Jean-Yves Masson entra in scena nella poesia europea una figura di autore necessaria quanto ormai sempre più rara: visionario e sapienziale, mistico e comparatista. Masson discende dalla linea maestra di Rilke, Yeats, e in origine Goethe e Blake, una tradizione poetica in cui la ricerca del senso, nell’opera in versi, è assoluta. La sua ricerca si muove nei territori della metafisica, della mistica, del pensiero, e naturalmente, fatalmente, si avventura nella dimensione del sacro. Spettatore e narratore dello spazio incorporeo tra terra e cielo, coglie in quel vuoto le apparizioni angeliche, la sua poesia è luogo di visite, di epifanie, di attese. La relazione luce-buio, che diviene metafora dell’angoscia novecentesca nei capolavori beckettiani, qui assume una nuova (e antica) valenza dinamica: il buio ritorna, come in Novalis e Campana, custode di segreti e promesse, la luce non solamente mette in rilievo le forme del mondo, ma inebria lo sguardo e l’anima. Masson conosce i percorsi spirituali dei mistici visionari, dal mondo cristiano all’estasi dei poeti sufi, conosce e traversa i tormenti dei grandi poeti orfici, cerca e trova una lingua piena di enigmi e di rivelazioni.Uno dei problemi del mondo attuale, soprattutto nell’Occidente più tecnologicamente avanzato, in base alla mia esperienza personale, è la perdita di interesse verso la poesia. Che però, ne sono convinto, è necessaria all’uomo. Non è un optional. Che ne pensa?«Una lingua nella quale non si scrive più poesia è una lingua morta, affermano i linguisti; al contrario, una lingua viva è una lingua che viene ancora usata per scrivere poesie. Forse la poesia potrebbe essere definita come l’atto che mantiene in vita una lingua: cioè non solo come oggetto di studio, nonché di “cultura”, ma come vettore di vita, sentimento, emozione e pensiero, cioè di creazione. La lingua non appartiene a nessuno, ma i poeti sono veramente quelli che la mantengono in vita. Senza poesia la lingua si irrigidisce o ritorna allo suo stato originario di dialetto privato di dimensione universale, voglio dire incapace di dare forma a una esperienza umana condivisa».Io credo che la realtà attuale del mondo, soprattutto per le clamorose tragedie che segnano la nascita del nuovo secolo e del nuovo millennio (una per tutta, la rinascita dello schiavismo nelle sue forme più antiche e assolute) obblighi l’uomo a un atto di speranza. Direi quasi necessitata. La poesia non può influire positivamente in tal senso, nella coscienza?«In francese abbiamo due parole : “espoir” e “espérance”. Non esiste tale distinzione in un’altra lingua europea, credo; in italiano la parola “speme” è soltanto un termine poetico e desueto, non distinto da “speranza”. In inglese o in tedesco c’è una sola parola (hope, Hoffnung). L’“espoir” è questo sentimento che i saggi del mondo antico consideravano come una tortura : il saggio cerca di non sperare niente per non essere deluso. L’“espérance” invece è nata con il cristianesimo, significa la speranza di una vita più giusta, cioè di un’altra vita dopo la vita terrestre (per l’uomo antico, la sopravvivenza dei morti non poteva mai essere una vita migliore, tutt’al più era senza sofferenza, ma con una continua nostalgia della luce). Questa “speranza” religiosa si trova al principio della più grande parte della poesia occidentale, fino ai tempi moderni. Ma è evidente oggi che questa attesa non è più condivisa da una maggioranza di nostri contemporanei, privi di riferimenti religiosi. Siamo ormai in un mondo senza speranza, ed è probabilmente soprattutto per questo che la poesia viene ignorata o disprezzata: perché i poeti, anche quelli che non credono in una vita dopo la morte, non rinunciano a cercare una nuova forma di speranza; altrimenti non sono poeti veri. Sulla forma e il contenuto della speranza si può dissentire, naturalmente, ma ogni poeta che sia tale è cosciente di affrontare il problema centrale, quello della nostra condizione mortale, limitata, per niente modificata dai progressi della scienza e della tecnica». Uno dei più gravi fenomeni del Novecento ancora alle spalle è la desacralizzazione del mondo. In questo senso la poesia potrebbe riaprire le menti alla realtà del sacro, nel senso più ampio. Non c’è forse qualcosa di religioso nella poesia?«Forse, ma per me c’è una distinzione importante tra poesia e preghiera: la preghiera si rivolge a Dio, la poesia si rivolge agli uomini. “Qualcosa di religioso” è troppo, o forse non abbastanza. Una poesia deve sempre essere costruita come un tempio, cioè uno spazio sacro dove regna il silenzio della presenza: ma questa presenza è quella del mondo, del nostro mondo, della terra. Non voglio dire che non esista, anche oggi, una grande poesia religiosa (l’ultimo Luzi ne ha dato prove esemplari). Ma una poesia, breve o lunga, mi pare prima di tutto una celebrazione della parola umana, e della sua incarnazione in una lingua precisa, con la sua storia, la sua geografia, con la gente che ne fa uso». La poesia è rivolta all’uomo, la preghiera Dio. La distinzione è giusta, ma a mio parere un po’ drastica, illuministica. Quando scrive, il poeta non sta pensando solo e direttamente all’umanità presente vivente in quell’attimo, ma a una sorta di «lettore», a lui simile e fratello, come scrive Baudelaire, un’altra parte del sé… Io scrivo anche per gli uomini che non sono più viventi in questa terra, anche a loro e in loro… Ma anche accettando questa distinzione netta, proprio perché rivolta all’uomo la poesia non può favorirne una rinascita spirituale?«Vorrei crederlo, ma affermarlo mi sembrerebbe presuntuoso. Siamo in tempi di poca luce, fa quasi notte sui nostri paesi del tramonto, e il compito del poeta è quello di un soldato di guardia. Ho però una certezza: tutti i fermenti di un possibile, prossimo rinascimento si trovano già nella poesia esistente, quella del nostro passato prossimo ma anche del più remoto. Come nel primo rinascimento bisogna tornare ai grandi miti, al tesoro di storie e di immagini accumulate dallo spirito umano, di cui il senso non è mai fissato per sempre, ma richiede sempre uno sguardo nuovo. Bisogna anche non vergognarsi di essere un poeta, cioè un artista della lingua che attinge immagini e parole da questa fonte antica».AnnunciazioneIl cuore dice Sì, la bocca ora dischiudela sua lode già sale, poiché sa.Begli occhi che la sicura via delle lacrime di nuovo prenderete, Tuonisalvezza delle lacrime e delle voci,Grandi gigli striati rotti all'ascolto dell'angelo:Il Cielo ha deciso di morire in una donna,l'infinito vuole conoscere la morte, provadella carne vuol fare. Sì, fino a tal segnola Luce è vaga della NotteTraduzione di Marco Vitale (inedito)

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