lunedì 7 settembre 2015
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Mancano pochi giorni all’ottantaquattresimo compleanno di Borges e sono salito con mia moglie e un paio di amici nel suo appartamento di Calle Maipú non senza qualche apprensione. Il suo racconto fantastico 25 agosto 1983, in cui aveva descritto, una ventina d’anni prima, come in un sogno profetico il suo suicidio, si avvicinava alla scadenza. «Resterà nel profondo della tua memoria, sotto la marea dei sogni. Quando lo scriverai, crederai d’inventare un racconto fantastico. Non sarà domani, ti mancano ancora molti anni». Borges è sempre stato imprevedibile, come nessuno che mi sia avvenuto di conoscere, nel mondo immaginario della parola. Quasi totalmente cieco, la parola è la sua realtà, la parola come suono e scrigno di sensi nascosti e invenzione di esseri strani e di vicende e di emozioni che non hanno nulla a che fare con la cosiddetta realtà della vita. Chi può dire di quest’uomo angelicato qual è il confine della sua letteratura e del suo essere qui ed ora con i piedi sulla terra? Che cosa può mai impedirgli che la vita come sogno gli si trasformi, con il gesto e il rito di una pratica letteraria, nel sogno della morte?Così pensavo con qualche apprensione quando nella sua bella casa arredata con quella sobria eleganza inglese che piace tanto, Malvinas a parte, agli argentini di buon gusto, Borges si raccontava con arguzia e con l’ironica vanità di chi ha avuto tanti successi e gli sembra strano che la gente lo prenda sul serio. Deliziosamente affabile, voleva ogni tanto il nostro commento. Ma come seguirlo nella sua scorsa filologica sulle varianti inglesi, tedesche e scandinave del suo cognome “borges”? O quando ha recitato in un antico dialetto sassone, e come scandendolo in versi senza dirci cos’era («loro lo sanno a memoria») il Pater noster? Si è commosso, quando ha ricordato la gioia di essersi accorto di capire, per la prima volta, i versi di Dante senza bisogno della traduzione inglese del Carlyle che egli leggeva a fronte del testo italiano mentre percorreva in tram una gran parte della città per raggiungere una biblioteca dov’era impiegato... Ma quella grande emozione («sono arrivato in paradiso prima ancora di cominciare la lettura della terza Cantica!») si vedeva ancora nello schiarirsi luminoso di quel suo viso corrugato e intenso. La Commedia la leggerà poi molte volte e l’italiano che egli conosce è soltanto, dice, quello di Dante, dell’Ariosto e poi di Benedetto Croce. Mi ha fatto molto piacere che tra i commentatori di Dante egli preferisca, oltre il Momigliano, il Grabber, mio indimenticabile amico dell’Università di Perugia.Il primo verso della Commedia fornisce a Borges il pretesto di parlare della vita e della morte. «“Nel mezzo del cammin di nostra vita”. Dicono che per Dante la durata media della vita siano i settant’anni. Ma io credo che si debba dare ragione agli Hindù che, in una citazione che ho trovato in Schopenhauer, dicono che la durata media della vita è di cento anni…». Meno male, penso, scacciando da me quella mia oscura e altrimenti ingiustificata apprensione. Borges ci parla di sua madre, morta a novantanove anni, pochi mesi prima di cento. È quello davvero il termine naturale della vita, la fine del suo giusto percorso, così che la morte non fa più paura come una catastrofe che sopravvenga inaspettata. Di sua madre, dice che si svegliava la mattina lamentandosi di esser ancora in vita, pur godendo ancora di una buona salute e non avendo particolari ragioni di scontento o di preoccupazione. La vita, nel compiersi del suo corso naturale, accetta anzi desidera la morte. «Come sarebbe insopportabile una vita senza fine!». Lei non è dunque d’accordo con Unamuno, gli chiedo, che in molti dei suoi saggi più significativi ha descritto quella suprema sensazione di angoscia che ci è data dal sentimento del nostro dover morire e più precisamente del nostro “annientamento”? «No, per nulla, su questo punto. Anche se con Unamuno ho avuto un incontro molto cordiale e ricordo una sua lettera molto bella che ora purtroppo ho smarrito». Per Unamuno il grande tema spinoziano della “perseveranza nell’essere” e cioè il problema “di sapere se dovrò morire o no definitivamente” è il punto di partenza “personale e affettivo” di ogni sincera riflessione sull’esistenza. «Io ritengo che non ci sia un’altra vita e la mia speranza è che davvero non ci sia». Aveva già detto nell’intervista a Maria Esther Vásquez: «Io voglio morire completamente. Non mi piace neppure l’idea che mi ricordino dopo essere morto. Spero di morire, di dimenticarmi e di essere dimenticato».Sarebbe certamente errato confondere questo atteggiamento di Borges verso la morte con la pragmatica o “positiva” sufficienza di quello che Unamuno ha chiamato «el hombre crepuscular», l’uomo che è chiuso al sentimento tragico della vita. C’è da chiedersi invece se lo straordinario interesse di Borges per la Divina Commedia («il migliore dono che la letteratura può offrire») alla quale lui ha dedicato saggi non rifletta una fede poetica che per lui, nel suo irreale e [illeggibile, ndr] mondo della parola, conta [...] di più dell’incredulità nelle risorse del reale. E infatti anche la fantastica anticipazione del 25 agosto 1983 è rimasta nella marea dei sogni. A Roma Borges non verrà, come là prevedeva, per ripetere «i versi di Keats, il cui nome, come quello di tutti, fu scritto sull’acqua», ma per ricevere un’altra delle molte lauree honoris causa che già hanno onorato la sua lunga vita. Sarà un onore di particolare prestigio perché a Roma, come egli ci diceva congedandoci, è stato coronato il poeta Petrarca e di Roma san Paolo si vantava di essere cittadino.(Trascrizione di Andrea Loffi)
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