mercoledì 25 marzo 2015
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All’inizio degli anni Cinquanta, prima ancora dell’incontro fondamentale con il grande critico d’arte Roberto Longhi e di quello che lo porta alla rappresentazione inconsueta delle periferie a nord di Milano, non ancora trentenne, Giovanni Testori già viene riconosciuto come un intellettuale difficile da incasellare, proprio per i molti ambiti in cui lo troviamo impegnato, dal teatro alla critica d’arte, fino alla pittura. E già il suo approccio radicale ad una diversa idea d’arte che guarda da una parte alla grande lezione di Picasso e dall’altro al Medioevo e al Romanico fa discutere. Così il giovane Testori è al centro del dibattito culturale milanese, soprattutto per quanto riguarda la sua idea di un’arte che deve fare i conti con la contemporaneità, che ha bisogno, per essere viva, di entrare nelle chiese, di trovare una forma per la rappresentazione cristiana. È un concetto sul quale continuamente ritorna negli anni, immediatamente successivi, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, tanto che nel 1948, in un articolo pubblicato su “Il Popolo” e intitolato Ritornerà completa la figura dell’uomo?, scrive: «Se si apriranno agli artisti moderni le porte delle chiese, la figura che essi creeranno equivarrà al tentativo della nostra società per essere cristiana».È una posizione che rendeva esplicita già nella Tesi di laurea, La forma della pittura moderna, presentata nel 1947, che crea un certo clamore, in quanto al momento della discussione viene rifiutata dalla Commissione presieduta da Mochi Onory, con l’invito a modificare le parti in cui parla del Surrealismo. Nella Tesi il giovane Testori sosteneva anche molto altro, per esempio un coraggio formale ed espressivo che la Chiesa contemporanea avrebbe dovuto ricercare, sull’esempio dei primi cristiani che non avendo «una forma», aveva guardato «alle forme dei pagani». L’antico cristiano, secondo Testori, «dipinse entrando nel loro modo e stile di dipingere…Era sicuro che la sua fede avrebbe redento prima e trasformato poi quelle forme. E’ chiaro che, per esempio, di fronte a certi bassorilievi per capire se sono di un cimitero pagano o d’un cimitero cristiano bisogna ricorrere ai simboli. Ma intanto l’antico cristiano aveva fatto in modo che le sue immagini fossero comprese dai pagani o dai nuovi cristiani che dal paganesimo uscivano». La questione centrale per Testori è quindi la possibilità di fare i conti con l’arte contemporanea: «Può un cristiano entrare nella forma con cui la cultura contemporanea e aberrata si esprime? Io direi che deve».Fedele a questo principio si sviluppa anche la sua attività di pittore in quegli anni, segnata dal tema della “crocifissione”, espresso in varie tele negli ultimi anni della guerra, ma anche in una serie di disegni che accompagnano le Laudi di Jacopone da Todi, in un volume d’arte pubblicato nel 1945. Tema che ritorna anche nei primi testi teatrali, da Cristo e la donna a Caterina di Dio, interpretato da una giovanissima Franca Valeri e attraversa il lavoro creativo di Testori in quegli anni. E non si ferma alla teoria quando auspica il bisogno dell’artista di ritornare in chiesa, ma lo fa diventare azione concreta, nel 1948, dipingendo, gratuitamente, nelle vele della cupola dell’abside della Chiesa di San Carlo al Corso di Milano, grazie all’amicizia con David Maria Turoldo, I Quattro Evangelisti. Ne nasce un caso, perché i Padri Serviti e una commissione istituita per valutare le opere d’arte danno un giudizio d’incongruità con il contesto e decide di cancellarli l’anno dopo, tanto che nella Cronaca del Convento dei Padri Serviti, il 23 giugno 1949 si legge: «Sono stati coperti con vernice ad olio i quattro affreschi, eseguiti dal pittore picassiano Dott. Giovanni Testori».Nel 1949 Testori realizzerà anche il quadro più importante di questo sua prima fase di pittore, una Crocifissione, composta con i simboli della tradizione cristiana, che in qualche modo ne rappresenta anche l’atto finale. Infatti nel 1950, ferito dall’incomprensione e dalla copertura degli affreschi degli Evangelisti, chiude l’esperienza di pittore, distruggendo le tele che aveva realizzato fino ad allora e che erano rimaste nel suo studio di via Santa Marta. Di quel periodo restano solo i dipinti regalati o venduti, oltre alla Crocifissione del 1949 che lo scrittore ha voluto tenere con sé per tutta la vita e che ora trova una diversa e più ampia possibilità di lettura, grazie al ritrovamento, in una collezione romana, da parte dello studioso Davide Dall’Ombra, di una serie di disegni che mostrano il processo creativo di Testori, sia per gli affreschi della Chiesa di San Carlo in Corso, sia e soprattutto per la Crocifissione del 1949. Vengono ora presentati – da venerdì – in una mostra al Mart di Rovereto, che permette un approfondimento del primo periodo testoriano, quando lo scrittore era, in primo luogo, un pittore e soprattutto un affondo sulla Crocifissione, dove centrale è il tema dell’Agnus Dei, come dimostrano buona parte dei disegni. Del resto, come ben sottolinea Francesco Guzzetti. «l’agnello è il fulcro del quadro, che diventa, nella sovrapposizione di significati, un estremo e intenso referto del sofferto viaggio di Testori attorno al tema della Redenzione, dove soggetti sacri, pittura moderna e maestri antichi si associano».
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