martedì 8 gennaio 2013
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La distanza aiuta a collocare in una dimensione più ampia e più larga le esperienze letterarie più complesse e meno classificabili, com’è ad esempio quella di uno scrittore come Giovanni Testori che, pur stando ai margini rispetto alle mode e ai salotti letterari, è stato sempre presente come "ospite scomodo" della scena letteraria italiana dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta. La molteplicità dei suoi interessi, dalla poesia al teatro, dalla narrativa alla critica d’arte, lo hanno sempre posto nella condizione di non poter essere "classificato" in una dimensione  precisa, pur avendo sempre avuto un riscontro critico di alto livello, da parte dei "maestri-recensori" della sua generazione: in primis Carlo Bo, che lo ha sempre seguito e letto con inconsueta partecipazione, per non parlare poi di Geno Pampaloni, di un critico che ha sempre privilegiato le scritture sperimentali come Giuliano Gramigna, fino alla riscoperta negli anni Ottanta da parte di Giovanni Raboni che nel 1991 lo definiva come «uno dei tre o quattro scrittori cui non vada ridicolarmente largo l’appellativo di grande scrittore» e sosteneva che «la sua statura, il suo peso, il suo "ingombro" sono quelli di un assoluto protagonista della seconda metà di questo secolo, mentre i confezionatori di panorami e consuntivi letterari, è già tanto che si ricordano di nominarlo».E se lo fanno, ancora oggi, si limitano al Testori più conosciuto, quello degli anni Cinquanta che raccontava le periferie milanesi e la naturalità della sua gioventù inquieta. Il resto viene dimenticato, anche se a teatro è continuamente riproposto e riletto, con grande riscontro da parte di un pubblico che sembra più disponibile della critica a "confrontarsi" con questo autore che non concede niente: inquieta, interroga, urla le proprie ossessioni e la sua verità di cristiano che guarda continuamente al mistero della Croce. Testori viene considerato ancora oggi dalla critica accademica e "scolastica" un minore, un lombardo che estremizza le intuizioni di Gadda, ricorrendo ad un certo manierismo sperimentale. Eppure questa riduzione "regionalistica", non rende giustizia alla sua importanza che è di ordine, non tanto e non solo nazionale, bensì estremamente europeo. Così nell’ottica della dimensione europea Testori trova una linea ben precisa di riferimento, tra gli scrittori dell’ossessione e della deformazione linguistica, in quegli scrittori che hanno indagato il vuoto e la corruzione del mondo, la devastazione della realtà, trasformandola anche in una sorta di voce linguistica, sempre diversa e sempre spezzata, tra urlo e preghiera, tra disdetta e profanazione e ricerca di una benedizione, attraverso l’indagine del mistero della verità umana.Va ricordato come in anni in cui Testori veniva dileggiato dalla stampa radical-chic per il suo "ritorno" alla luce dell’Incarnazione come senso della realtà dell’uomo, uno scrittore non certo accademico come Alberto Arbasino elogiava il <+corsivo>Factum Est<+tondo> testoriano, il monologo smozzicato di un feto che chiede di vivere, di essere messo al mondo, un testo dichiaratamente "antiabortista" della fine degli anni Settanta, richiamando, a ragione, la scrittura di Testori ad ascendenze da Samuel Beckett. E non è un caso che Testori stesso, a partire dalla pittura e dalla folgorazione nei primi anni Sessanta delle opere di Francis Bacon, abbia voluto portare nella sua scrittura il segno del grande pittore inglese, attraverso un lungo lavoro di ricerca poetica che dalle esplicite Suite per Francis Bacon arriva al poemetto Crocifissione. Una scrittura la sua che vive in un magma di voci e di folgorazioni figurative che non è mai usuale, che sperimenta e si costruisce intorno a pochi temi sempre ripercorsi in diverse "variazioni", un’opera quella di Testori che della letteratura europea riprende il tema dell’ossessione, della deformazione, in vista della ricerca di un’unità di luce. E il paragone più stretto e più naturale tra Testori e i grandi scrittori europei è quello che si pone con lo svizzero Dürrenmatt, legati biograficamente dall’amicizia con il pittore Varlin, tanto che alla sua  morte si troveranno insieme a omaggiarne la memoria con i discorsi al suo funerale. Dovrebbero essere indagati a fondo, in un ampio saggio, i percorsi dei due scrittori e, al di là delle differenti forme linguistiche, si potrà scoprire quanto comune fosse il sentire, rispetto alle ombre di morte che vedevano addensarsi sulla contemporaneità negli ultimi anni di vita.
Ognuno dei due, Testori e Dürrenmatt, negli anni Ottanta hanno dimostrato quanto fosse potente la loro grandezza linguistica, sorretta dal dono della profezia e da una differente, anche se parallela, riflessione teologica: le loro ultime opere sembrano segnare un ultimo disperato allarme contro il cinismo del mondo, con le loro visioni del deserto morale (Testori con In exitu e Dürrenmatt con L’incarico) e un’ultima visione apocalittica, quella che Testori propone con Gli angeli dello sterminio e Dürrenmatt nella Valle del Caos, come necessità di rigenerazione dello sguardo morale. Una storia critica tutta da riscrivere quella di Testori, per rendergli finalmente quella giustizia che il provincialismo italiano spesso rifiuta, non solo per paura, ma anche per quel pressapochismo che caratterizza lo studio serio della nostra letteratura.
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