venerdì 7 marzo 2014
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Biologo specializzato nella riproduzione umana e animale, già direttore di ricerca del noto laboratorio transalpino Inserm, nonché ex presidente della Commissione francese per lo sviluppo sostenibile, «ateo e di sinistra», Jacques Testart divenne celebre nel 1982 come padre scientifico del primo «bambino in provetta» d’Oltralpe. Da allora, pur non rinnegando quell’atto tecnico che al contempo non considera come «una grande prodezza scientifica», Testart ha dedicato molti libri alla denuncia delle crescenti derive della tecnoscienza nel campo della salute e della riproduzione umana. Se per lui la maternità surrogata è una semplice pratica sociale equivalente né più né meno alla «schiavitù», le sue critiche della tecnoscienza in senso stretto sono state appena precisate e riassunte in Faire des enfants demain («Far bambini domani», Seuil), saggio di grande chiarezza concepito per svegliare dal sonno dogmatico scientista una Francia ancora profondamente influenzata dall’ideologia positivista.Lei denuncia la diffusione di un «eugenismo democratico». Cosa intende?«Rispetto all’eugenismo storico, doloroso e autoritario, si estende oggi un eugenismo consensuale, nel senso che sono le stesse persone a chiedere di avere un bambino normale, eliminando presunti embrioni anormali. In Europa, il fenomeno è cominciato con la fecondazione in vitro e la scelta del donatore di gameti maschili da parte del medico. Ciò era presentato come un atto generoso, dato che la scelta era di concepire bambini non malati e simili al padre. Ma si trattava già della scelta di un padre senza che i genitori potessero intervenire e senza che il bambino potesse incontrare un giorno il padre biologico. Nel dopoguerra si erano viste forme di eugenismo pure in Estremo Oriente, in Giappone e a Singapore, ad esempio con l’offerta di una casa o di un’auto in caso di matrimonio fra laureati, secondo l’idea stupida che l’università prova l’intelligenza e che far sposare i laureati fra loro giova alla crescita del Paese. Oggi, dappertutto, il fenomeno esplode con le banche di gameti e la selezione degli embrioni».C’è a suo avviso il rischio di «modellare un’altra umanità». Non è una previsione troppo pessimista?«Per il momento, la fecondazione in vitro è un processo doloroso per le donne. Ma se queste tecniche dovessero semplificarsi e generalizzarsi in futuro, come mi pare probabile, le coppie chiederanno tutte la stessa cosa, ovvero una sorta di bambino perfetto secondo i canoni dell’epoca che tenderanno a imporsi su scala internazionale. Si scivolerà così in una sorta di clonazione sociale, senza passare per la clonazione in senso tecnico. Si elimineranno alcuni caratteri dell’umanità di oggi, con l’idea che i nuovi caratteri sono superiori e vantaggiosi».Accanto a enormi dilemmi etici, questa normalizzazione dei genomi presenta già zone d’ombra strettamente scientifiche?«La maggioranza dei geni che inducono gravi patologie proteggono pure da altre patologie. In genere, non c’è un gene buono o cattivo in assoluto. Ci sono geni che hanno azioni varie e ancora in gran parte sconosciute. Non conosciamo le interazioni fra i geni. Dunque, facciamo gli apprendisti stregoni facendo finta di sapere tutto. La maggioranza dei geni influenzano centinaia di caratteri, patologici o meno, in un modo che non conosciamo. In più, sono influenzati dall’ambiente, con i fattori epigenetici. Non sappiamo affatto dove stiamo andando. Evoco Darwin per ricordare che, secondo le leggi dell’evoluzione, sappiamo che una specie sopravvive, nei periodi di crisi e di catastrofe, solo grazie a genomi vari. In una popolazione, ci sono così individui capaci di resistere. L’esempio più noto è quello della peste nel Medioevo. Nei villaggi il 30% degli individui riuscì a sopravvivere, certamente per ragioni genetiche che del resto non conosciamo ancora. Con il cambiamento climatico, potrebbero presto propagarsi nuove malattie che ci troveranno impreparati o impotenti. E in questo contesto fabbricare individui geneticamente simili rischia di firmare la morte della specie nel volgere di due o tre secoli».Lei critica certe tendenze della medicina. In campo procreativo, sta uscendo dal proprio perimetro di legittimità?«In modo molto netto. Quando ad esempio i ginecologi francesi chiedono di congelare gli ovociti di donne che non hanno alcun problema ma che per ragioni di carriera o altro non vogliono far bambini da giovani, è evidente che non si tratta di un problema medico. È una questione sociale. Si può ad esempio imporre al datore di lavoro di non impedire l’ascensione professionale delle donne con bambini. Non spetta ai medici risolvere la situazione con simili artifici. In parallelo, è anche vero che in Francia oggi il 25% delle coppie che chiedono una fecondazione in vitro non ne ha davvero bisogno. Basterebbe attendere un po’».Questi abusi si fondano talora su una visione discutibile o distorta dell’uguaglianza?«Certo, ad esempio proprio nel caso delle donne che chiedono di congelare i propri ovociti. Si invoca una presunta disuguaglianza rispetto agli uomini, che restano teoricamente fertili durante tutta la vita. I ginecologi pretendono di compensare questa disuguaglianza con la tecnica».Le vecchie tentazioni prometeiche umane si associano oggi a logiche mercantiliste su grande scala?«Esattamente. C’è una convergenza e ben pochi politici se ne rendono conto. Fra questi, i soli che capiscono quanto dico e resistono un po’ sono i cattolici. Personalmente, ciò mi affligge. Sono un uomo di sinistra e mi espongo agli sberleffi dei miei amici quando racconto ciò. Non vogliono neppure parlarne».Anche fra i pensatori che lei cita molti sono cristiani, come Ivan Illich o Jacques Ellul...«In proposito, mi dico che non si sfugge alla propria cultura. Non ho affatto ricevuto un’educazione religiosa, ma appartengo alla cultura giudeo-cristiana, senza essere direttamente un giudeo-cristiano. E poi, constato che le grandi religioni non hanno concepito per caso certe proposte comuni per il bene dell’umanità. È in questo modo che si può riuscire a vivere in società, anche se storicamente vi è stato forse in ciò pure dell’opportunismo».
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