lunedì 12 ottobre 2015
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Della grande mistica spagnola, Teresa d’Ávila e Juan de la Cruz sono il culmine e il compimento. Chiudono il secolo del Rinascimento e aprono l’inquieta modernità del XVII. Di Teresa (Ávila, 28 marzo 1515 – Alba de Tormes, 15 ottobre 1582) si celebrano i 5 secoli dalla nascita, anche se la festa liturgica è fissata alla data della morte.Riformatrice dell’ordine carmelitano, mistica, Teresa è stata, non meno, scrittrice di architetture dell’anima, suscitando dietro di sé un’iconografia, dalla «Trasverberazione» del Bernini a Santa Maria della Vittoria ai ritratti di Rubens e del Guercino, che ha animato l’immaginario europeo, la filosofia, la poesia: «Di Teresa qui giace/ il core palpitante,/ morto ancora vivace,/ e senza vita amante» (G. Lubrano, Epitaffio al cuore di Santa Teresa che fuma in un reliquiario di cristallo, in Scintille poetiche, 1690).La sua Vita, scritta dal 1567, è – con gli Essais di Montaigne – la nascita di un’«analisi del sé» di vertiginosa lucidità, penetrando negli abissi dell’anima con intelletto vigile, capace di discernimento acuminato non meno che di vigoroso realismo: «Volesse Iddio che temessimo soltanto quel che è da temere, persuadendoci che può farci più danno un solo peccato veniale che non tutto l’inferno messo insieme, il che è la pura verità. Se i demoni ci fanno spavento, è perché noi stessi li rendiamo terribili col nostro attaccamento agli onori, alle ricchezze e ai piaceri» (Vita, cap. XXV).La sua fortuna è stata segnata da quell’istante di visitazione ardente di cui la Vita è testimone e Bernini supremo interprete: «Volle il Signore che, trovandomi in questo stato, avessi più volte la seguente visione. Vedevo un angelo accanto a me, a sinistra, in forma corporea: cosa che non mi accade che rarissime volte. […].  Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avere un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere dei gemiti, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po’, anzi molto. È un idillio così soave quello che si svolge tra l’anima e Dio, che io supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che io mento» (Vita, cap. XXIX).Ma occorrerebbe ricondurre a mente quei momenti squisitamente narrativi del Castello interiore (1577) nei quali – insieme alle progressive inabitazioni nel castello dell’anima – s’aprono contemplazioni del quotidiano di rara finezza: «Amerei far intendere qualcosa di quello che sento, servendomi di similitudini, ma non credo che ve ne sia alcuna adeguata allo scopo. E tuttavia mi servirò di questa: immaginate la Wunderkammer di un re o di un gran signore nella quale vi sia un’infinità di cristalli, di vasi, e di molti altri oggetti disposti in tal maniera che uno li veda d’un colpo d’occhio entrando, come mi accadde un giorno nel palazzo della Duchessa d’Alba. Sin dall’ingresso rimasi stupefatta, e in me pensavo a cosa potesse servire tale profusione di così disparate meraviglie; e credetti che una sì grande varietà potesse servire per lodare le grandezze di Dio. […] Sebbene avessi passato gran tempo a considerare questo gabinetto di rarità, la quantità tuttavia di oggetti di cui era colmo era sì grande che dimenticai d’un tratto tutto quello che avevo visto; e non c’è un solo oggetto di cui possa ricordarmi, né dire come era fatto […]; soltanto mi ricordo, in generale, di averli visti. Così è dell’anima unita a Dio, e accolta in quell’appartamento di meraviglie del cielo empireo che noi abbiamo all’interno delle nostre anime» (Il castello interiore, sesta Dimora, cap. IV).Ha scritto Michel de Certeau che la mistica non è tanto un percorso, una condizione d’essere, ma piuttosto un istante memoriale, un tocco impalpabile; Teresa d’Ávila va ben oltre, e il suo dettato mette in ombra anche il cammino proustiano: «Vi è una sorta di rapimento nel quale, sebbene l’anima non sia in orazione, ma soltanto toccata dal ricordo di qualche parola che le ritorni alla mente, o ch’essa abbia inteso altra volta da Dio, sembra che la divina Maestà – intenerita e piena di compassione per averla vista così a lungo nella pena che la violenza dei suoi desideri le faceva patire – faccia nascere dal più profondo dell’intimo suo quella scintilla, di cui ho sopra parlato, che l’infiamma di tal sorta che essa si rinnova come una fenice in mezzo a lingue di fuoco» (Il castello interiore, VI, 4).È stata santa Teresa la più appassionata amanuense di una lunga, gelosa, divina lettera d’amore. Molti hanno scritto di questo «cor di foco» (Lubrano), anche nel XX secolo da Bataille a Julia Kristeva. Ma nessun ritratto ha avvicinato l’intensa semplicità con la quale Raymond Carver, l’inobliabile autore della Cattedrale, ha consacrato a Teresa l’ultimo suo scritto, letto il 15 maggio 1988 all’Università di Harford: «La scena finisce, ma le parole rimangono nell’aria come azioni. Nasce "una vocina nell’anima" che parla anche a noi.  E anche il modo in cui abbiamo forse bandito dalla nostra mente certe idee sulla vita, o sulla morte, cede di colpo e inaspettatamente il passo a una fede, magari di natura fragile ma insistente» (Meditazione su una frase di santa Teresa).
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