lunedì 12 marzo 2012
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In un libretto gustoso e pieno di verve, il giovane ricercatore Peter Haugen indica le dieci date indimenticabili del mondo: la prima è il 460 a.C., vale a dire la nascita della democrazia ad Atene; l’ultima è l’agosto 1945, quando gli Stati Uniti sganciarono la bomba atomica sul Giappone sancendo così la fine del secondo conflitto mondiale. La prima e l’ultima data, ma anche tutte le altre, coincidono con eventi tutti rigorosamente legati alla storia dell’Occidente e della sua supremazia sul resto del mondo. La linea, tanto per capirci, di un Huntington o di un Fukuyama, per i quali il XXI secolo sarebbe stato ancor più caratterizzato dall’occidentalizzazione. Il primo senza celare possibili conflitti fra civiltà (col mondo islamico in particolare), il secondo più tranquillizzante circa il processo di progressiva estensione della democrazia propria di Europa e America in tutto il resto del globo. In realtà, il crollo dei regimi comunisti nell’Est europeo non ha significato l’avverarsi dell’ordine unico mondiale come auspicato da alcuni politologi americani ai tempi di Bush jr. L’ascesa della Cina e dell’India, di pari passo con la diffusione della crisi economica prima negli States a partire dal 2008 e poi in maniera ancora più grave nei Paesi della Ue, pongono oggi scenari inaspettati. Che non possono non interrogare gli storici. Ma possibile immaginare una “storia globale” non più dipendente solo dall’Occidente? Ed possibile oggi, dopo la crisi delle ideologie che ha investito le teorie del progresso, parlare ancora di un “senso” per la storia? Scriveva di recente lo storico Franco Cardini che la seconda metà del XX secolo è stata il tempo del disincanto rispetto alle grandi teorie storiografiche e alle ricostruzioni di “lunga durata”, nel segno di Fernand Braudel. Si dunque assistito al trionfo della “microstoria”, vale a dire di studi specialistici portati all’estremo rinunciando allo sforzo di sintesi.
L’inizio del XXI secolo pare invece tornare alla necessità di teorizzazioni di più vasto respiro, anche per poter interpretare alcuni eventi (dal crollo delle Twin Towers alla primavera araba, dal riposizionarsi della Russia al boom di Cindia, dalla crescita del Sudamerica all’inaspettato rifiorire dell’Africa, almeno in alcune sue aree) non solo mediante la teoria della casualità, ma di una nuova possibile filosofia della storia. È quanto emerge dal nuovo volume di uno dei più importanti nostri studiosi della storia, Pietro Rossi, da poco uscito dal Mulino col titolo Il senso della storia. Dal Settecento al Duemila (pagine 468, euro 27,00). L’autore, dopo un lungo excursus storico ove pone a confronto le varie concezioni della storia sviluppatesi nei secoli, giunge alla conclusione che la storia globale è programmaticamente una storia non eurocentrica. «L’Europa – scrive – non può essere più considerata il centro del mondo, in quanto tale diventata a un certo momento del suo sviluppo, e per un determinato periodo; la vicenda plurisecolare del continente eurasiatico – dall’unificazione della Cina sotto la dinastia Qin, nel III secolo a.C., all’unificazione all’incirca contemporanea dei Paesi mediterranei sotto l’egida romana – è stata contrassegnata non tanto dall’ascesa del mondo europeo, quanto da una fondamentale polarità, quella fra Cina ed Europa (complicata dalla conquista islamica nel VI-VIII secolo d.C. e dall’ascesa della Russia a partire dal Settecento)». Non che si possa negare lo sviluppo europeo nella modernità e il suo progressivo dominio del globo giunto a compimento nell’800 (poi nel ’900 sostituito da quello statunitense), ma per il nostro studioso la conclusione più rilevante dal punto di vista dello storico è che «il ruolo dell’Europa nella storia nel mondo non può essere spiegato attraverso lo studio esclusivo della storia europea, ma esige il ricorso a un quadro più vasto, vale a dire al quadro del continente eurasiatico». Uno sforzo compiuto ad esempio da William H. McNeill in The Rise of the West del 1963. A partire dalla nascita e delle civiltà nell’area mesopotamica e dalla sua diffusione in varie aree, dall’India alla Grecia alla Cina, McNeill evidenzia non solo la crescita delle varie forme di civiltà dalla nascita alla morte, ma mette in luce il rapporto fra loro. L’analisi comparativa (propria di Toynbee e poi di Huntington) cede il posto appunto alla World History, a una storia globale che accantona il postulato dell’isolabilità. Un altro studio importante cui Rossi fa riferimento è The Modern World System (1974-1989) di Immanuel Wallerstein, per il quale l’economia-mondo capitalistica non è un affare solo dell’Occidente. Il che, come aveva messo in luce Robert N. Bellah in Togukawa Religion (1957) e come molti altri studiosi hanno fatto negli ultimi decenni, smentisce il luogo comune weberiano del legame particolare fra protestantesimo e spirito del capitalismo. Altri studi usciti nel ’900, scritti non solo da storici ma da antropologi, confermano queste tesi: dal famoso Atena nera (1987) di Martin Bernal, che rintraccia le origini asiatiche ed egizie della cultura greca antica, a Orientalismo (1978) di Edward Said, critico dell’atteggiamento occidentale che descrive l’altro-da-sé solo nella prospettiva che gli conviene, fino ad Armi, acciaio, malattie di Jared Diamond (1997), che esamina i rapporti fra popoli e civiltà attraverso fattori economici ma anche geo-sanitari, e a quello di Jack Goody (The East in the West, 1999), che va alla ricerca degli elementi comuni alla civiltà europea e a quella asiatica. Ma c’è un altro tema ancora più profondo che emerge dal volume di Pietro Rossi ed è quello della filosofia della storia, disciplina che egli stesso insegna. Tema oggi ritenuto assai arduo ma che lo studioso torinese ha il coraggio di affrontare. Con ampi riferimenti a chi in passato ha osato fare altrettanto, da Hegel a Spengler, da Burckhardt a Huizinga, da Löwith a Koselleck. Mostrando di preferire le tesi di quest’ultimo, secondo il quale la filosofia della storia è un fenomeno specificamente moderno e legata in modo sostanziale alla teoria politica. Contravvenendo a quanto sosteneva Karl Löwith, che invece partiva da ben altro assunto: la filosofia della storia sorta fra Sette e Ottocento vista come «la graduale secolarizzazione di una visione teologica». Pur amando Löwith, su questo punto Pietro Rossi non ne condivide la tesi: di qui anche la sua riduzione della visione di Agostino nella Città di Dio a una “storia della salvezza”, non degna di essere chiamata “filosofia della storia”.
E qui si apre lo spazio per una riflessione finale, che tocca proprio il discorso della “teologia della storia”. Certo, oltre Agostino nel libro di Rossi sono citati Orosio e Gioacchino da Fiore, Vico e Bossuet, ma forse vale la pena spingere più in là lo sguardo. Arrivando ad autori come Nikolaj Berdjaev (Il senso della storia, 1948, tr.it. Jaca Book 1971) o René Grousset (Bilancio della storia, 1943, tr.it.Jaca Book 1983). E, soprattutto, alle opere di Henri-Irenée Marrou La conoscenza storica (1954, tr.it. Il Mulino 1962) e Teologia della storia (1968, tr.it. Jaca Book 1969). Dopo la tragedia della seconda guerra mondiale e col mondo sotto scacco per l’incubo atomico, nella storiografia pareva dominare il filone dell’antistoria, un pessimismo di fondo che tendeva ormai a escludere ogni tentativo di lettura razionale degli eventi. Ebbene, senza ricadere nell’ottimismo trionfante di stampo hegeliano delle ideologie ottocentesche, Marrou ripropone, con umiltà ma con chiarezza, la possibilità di una teologia della storia.
Scrive in Teologia della storia: «Dov’è la vera storia? Non è quella che contempliamo con i nostri occhi fisici, quella che si registra nelle nostre cronologie, la storia empirica che lo storico cerca di ricostruire. La scienza storica ci permette di conoscere e di comprendere alcune cose: le cause della guerra del Peloponneso, l’evoluzione che ha trasformatola schiavitù in asservimento, la nascita e la trasformazione del capitalismo, la sconfitta della colonizzazione europea del XIX secolo e altre cose dello stesso genere, sempre però limitate nel tempo e nello spazio. Ma una volta recuperati questi diversi episodi dell’avventura umana, noi non scorgiamo nel loro concatenamento maggior ordine e senso che nella disseminazione irrazionale delle stelle sulla volta del cielo». Marrou volge lo sguardo a quel disegno superiore che lascia le sue tracce nelle vicende umane: la sua lezione, contro l’ottimismo di Hegel o il pessimismo dei suoi contemporanei, mette in luce il mistero della storia, tutta la sua ambivalenza. Essa ha un duplice volto, «uno sinistro l’altro ridente; rivolti l’uno verso il Bene, l’apertura all’Essere, l’altro verso il Male, la dissoluzione, la distruzione, il non-essere. Al tempo stesso in cui vi si realizza il progresso della città di Dio, essa è testimone della decomposizione della città del male». E qui tornano in mente le parole di Giovanni Paolo II a Fatima nel 2000, uno dei discorsi più memorabili di teologia e filosofia della storia degli ultimi tempi: una rilettura delle tragedie del ’900 e degli orrori dei totalitarismi nazista e comunista non solo (come ha notato subito dopo in un magistrale articolo Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera sotto il segno dell’utopia e del progresso, ma anche della profezia e della presenza dell’elemento del Maligno all’interno della storia umana. Negli anni scorsi anche un filologo ungherese, László Földényi, in un pamphlet vivace e divertente (Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere, 2007, tr.it. Il melangolo 2009), ha riproposto la possibilità di una filosofia (ma anche di una teologia, pur non essendo credente) della storia. Contro Hegel, che esclude dal novero della storia interi popoli e continenti fra cui la Siberia (ma anche l’Africa), Földényi immagina lo scrittore russo dar voce agli esclusi. Anche in questo caso emerge una visione radicalmente diversa della storia: una storia da cui inutilmente la cultura occidentale ha cercato di rimuovere la sofferenza e la morte, la sacralità dell’esistenza e l’attesa di una redenzione possibile.
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