giovedì 7 agosto 2014
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Negli anni della Grande Guerra fu il luogo di prigionia più lontano dalle trincee a circa mille chilometri di distanza dalle trincee. Del campo di concentramento di Vittoria, il più grande mai costruito in Sicilia, passarono oltre 18mila soldati ungheresi. La sua esistenza è poco nota ai siciliani e non solo, ma resta la testimonianza reale che la tragedia della Prima guerra mondiale non seminò solo morte e distruzione. Al di là delle dodici battaglie dell’Isonzo, degli scontri sulla pianura di Doberdò, degli assalti degli arditi alle cime delle Dolomiti e a quelle del Piave, nel lembo più a sud d’Italia il capannone n.16 di contrada Capitina e Mendolilli diventà laboratorio di amicizia, di umanità, di pace e solidarietà. Basta leggere i documenti e le lettere conservate nel Museo storico italo-ungherese, inaugurato il 14 dicembre 1995, per capire che italiani e ungheresi non volevano quella guerra. I governi però decisero sopra le loro teste e con la dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia del 28 luglio 1914 nel vecchio continente scoppiò la scintilla. L’Italia parteciperà al conflitto l’anno seguente prima dichiarando "nulla" la Triplice Alleanza con Austria e Germania, poi dichiarando guerra all’Austria il 23 maggio 1915 a fianco dell’Intesa. Sette mesi dopo l’inizio delle ostilità, il 18 dicembre, il Ministero della Guerra si trovò davanti al problema dell’alloggiamento dei soldati nemici catturati al fronte. Così il genio militare di Messina avviò i primi contatti telegrafici con il Comune di Vittoria. Il sindaco del tempo dichiarò la sua disponibilità a collaborare con l’autorità militare e tutto ebbe inizio. Alle periferie delle linee di combattimento gli ungheresi condivisero con il popolo siciliano sofferenze, malattie, speranze e l’idea scellerata di ricorrere alle armi gli uni contro gli altri. «Questo legame è documentato dai lavori artigianali eseguiti dai prigionieri ungheresi durante la detenzione  - spiega lo storico Giancarlo Francione, autore insieme all’ungherese Dezsö Juhász del libro La Cappella Ungherese pubblicato dal Comune di Vittoria -. A ricordo della loro presenza per ribadire gli ottimi rapporti di amicizia con la popolazione locale donarono piccoli oggetti prodotti artigianalmente dai soldati austro-ungarici internati nel campo». Ne sono un esempio una penna in ossa, un portasigarette, un portacartina e dei portauovo in legno che recano la scritta Ricordo prigionieri di guerra. Vittoria 1918, ma anche due accendini ricavati da grossi bossoli di proiettile, stampe e documenti che testimoniano l’amicizia tra i due popoli. Nei diari dei superstiti come Sándor Szabó (1895 - 1987), un insegnante di disegno di Ózd che nel 1916 venne catturato e deportato in Sicilia per tre anni, si legge: «Gli italiani non erano comprensivi, quando un treno per il trasporto dei prigionieri, si fermava in qualche stazione venivamo accolti da frasi ingiuriose. Soltanto in seguito si cambiò opinione. Anche a Piazza Armerina, gli abitanti, venendo a conoscenza che eravamo ungheresi e non austriaci, ci considerarono veri amici». I prigionieri potevano uscire un paio di volte a settimana; venivano accompagnati fuori dal campo di prigionia da un ufficiale e da un soldato. In tali occasioni si instaurarono rapporti di amicizia, così come con commercianti, farmacisti e medici che prestavano servizio all’interno del campo di concentramento. Ciò favoriva la possibilità per i prigionieri ungheresi di poter ordinare e acquistare frutta, libri, biancheria e altro pagando con il cosiddetto "Buono" dei prigionieri di guerra. «Gli ungheresi cercavano di sopravvivere allo stesso modo di noiantri al fronte in brigata», raccontava ai familiari il soldato siciliano, ormai scomparso, Michelangelo Modica, reduce insignito dalla Croce di cavaliere di Vittorio Veneto, che dopo la guerra andò a visitare quei baraccamenti. La speranza di fare ritorno a casa si legge nella lettera di Janos Koreschnik alla Croce Rossa ungherese spedita dall’Italia: «Chiedo scusa, ma come prigioniere di guerra, vorrei chiedere il Vostro riguardo concernente il mio futuro. Immeritatamente, sono caduto in prigionia italiana al primo giorno dell’armistizio, il 4 novembre 1918, nel pomeriggio alle tre, insieme all’intero 29mo Reggimento. Stiamo bene, ci preoccupiamo soltanto per il futuro della nostra Patria». E se molti ungheresi fecero ritorno, altri morirono in detenzione, in terra siciliana. La pietà e il profondo rispetto per loro diede l’idea al capitano del Regio Esercito Giovan Battista Parrini, comandante interinale del campo di concentramento di Vittoria negli anni 1917-1918, di erigere un monumento ossario ai  soldati ungheresi deceduti in prigionia nell’isola.In seguito se ne contarono 118. Ciò produsse nei prigionieri un senso di affetto e gratitudine culminato con la consegna da parte di 62 fra ufficiali e graduati ungheresi di una pergamena di ringraziamento. Oggi la Cappella ungherese di Vittoria e il Museo realizzato in collaborazione con il governo ungherese educano le nuove generazioni al rifiuto di ogni guerra e alla cultura della pace.
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