giovedì 24 ottobre 2013
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«È un cammino davvero rivolto verso una meta. Vi pesano la storia, la spiritualità, la presenza dei pellegrini di ogni epoca. E più di altri, è un cammino umano, di uomini al passo. La storia e la geografia dell’umanità si congiungono in una grande convergenza, europea ma pure mondiale». Un bel giorno di primavera, mosso da un bisogno intimo difficile da spiegare a parole, lo scrittore francese Jean-Christophe Rufin, classe 1952, è partito in treno dalle Alpi verso i Pirenei, per poi lanciarsi a piedi lungo gli 800 chilometri del Camino del Norte, la variante meno convenzionale e più aspra diretta a Santiago di Compostela. Quella che segue la costa basca e cantabrica, traversando poi Asturie e Galizia. La vita di Rufin era già colma di esperienze internazionali: membro fondatore di Medici senza Frontiere e poi dirigente di altre ong umanitarie, vincitore del premio Goncourt nel 2001, uno scranno fra gli “Immortali” dell’Accademia di Francia, la carica di ex ambasciatore in Senegal. Ma gli mancavano ancora milioni di passi, zaino in spalla e vesciche ai piedi. Da quest’esperienza, è nato un clamoroso bestseller, Il cammino immortale, ora edito in Italia da Ponte alle Grazie nella traduzione di Francesco Bruno (pagine 208, euro 13,90). Rufin ce ne ha parlato in questi giorni a Saint-Dié-des-Vosges, in Lorena, dove ha presieduto il Salone del libro legato al 24mo Festival internazionale di Geografia.Delle gioie di quest’esperienza, quale è rimasta più viva?«Quella della partenza, ancor più che dell’arrivo. La gioia d’incamminarsi, liberandosi dei vincoli e cominciando a percepire dove il cammino conduce. Dopo mezza giornata, avevo già perso ogni riferimento. Ero davvero in marcia».Pure la gioia di far parte di un popolo?Sì, esattamente, anche questo. Uno strano popolo che viene dai quattro angoli del mondo». La sua percezione geografica è cambiata?Il cammino accatasta epoche e strati storici. Talora, il presente urta il passato. Ho trovato interessanti pure i tratti in cui il cammino si è trasformato in autostrada. Come se avesse scavato un solco, restando l’asse principale. Le regioni che si attraversano non rappresentano di certo tutta la Spagna, ma il pellegrino le percepisce comunque diversamente».Come si è posta per lei la questione religiosa?«In un primo tempo, mi sono limitato all’aspetto formale, ovvero la visita di eremi, monumenti e chiese. In questo modo, volevo pure evitare la dispersione mentale della marcia, che finisce per non far più pensare a nulla. Poi, sono stato colto più intimamente da una sorta di soffio spirituale, legato a certi luoghi di alta spiritualità che mi hanno profondamente impressionato, soprattutto sulle montagne delle Asturie».Direbbe che è entrato in contatto con il sacro?«Mi sono reso conto di quanto il cammino sia segnato dalla presenza del sacro. E si può ancor più percepire il sacro grazie alla marcia, che apre le porte dell’emozione estetica e spirituale. I miei ricordi personali d’infanzia sono cristiani e cattolici, ma il contatto con tanti altri pellegrini non necessariamente credenti schiude orizzonti che vanno ben al di là delle proprie radici personali».La parola umiltà ha un senso nuovo per lei?«Sì, perché Compostela è una sorta di scuola d’uguaglianza. Non ci sono gerarchie, anche se chi parte da più lontano è considerato dagli altri più meritevole. Ma per il resto, nessuno ti chiede se sei ricco o povero, o le tue origini. C’è una grande umiltà e per i pellegrini vige sempre il principio di evitare le soluzioni lussuose. Il cammino significa spogliarsi un po’ del passato. Coricarsi un po’ dove capita. Tutto questo produce una trasformazione profonda, che mette i pellegrini sullo stesso piano». Ha scoperto che c’è ricchezza nella semplicità?«Sì. In effetti, il pellegrino non è mai davvero povero, ma ha accettato l’essenzialità. Ed è pure questa condizione a renderlo più fraterno».È già un nostalgico di Santiago?«È molto strano e curioso, ma è proprio così. Ogni volta che guardo delle immagini, provo una forma di nostalgia profonda che mi dà voglia di ritornare sul Camino».La sorprende il successo straordinario del libro?«Sono rimasto estremamente sorpreso, tanto più avendo scelto un piccolo editore, senza grandi mezzi economici. Al contempo, penso che non sia stato un caso. Tutto ciò corrisponde a un vero bisogno, in Francia, di marcia e di spiritualità. Il mio libro non offre una determinata visione religiosa, ma una ricerca e un’esperienza esistenziale. Forse anche per questo, molti lettori si sono identificati".Come definirebbe il bisogno che il libro ha captato? «Nel mio Paese, avverto al contempo un bisogno di movimento e di ritorno alle radici. Parlerei di una volontà paradossale di movimento e radicamento, come se occorresse di nuovo cercare queste radici spostandosi».Questa Francia, di cui lei è stato ambasciatore, soffre oggi a causa di un vuoto spirituale?«È certamente così. E in proposito, avverto soprattutto una nostalgia diffusa verso le forme religiose tradizionali. In fondo, non credo che siano oggi in molti a ricercare religiosità esotiche, in Oriente o nell’islam. Tanti vorrebbero riallacciare i fili con la propria tradizione religiosa, che è indiscutibilmente cattolica, ma non necessariamente cominciando dai riti in chiesa. In questo senso, il pellegrinaggio è forse un modo per ritrovare la propria tradizione, ma senza un’adesione preliminare a riti o istituzioni. È la rivisitazione di una tradizione ancora abbastanza viva per essere condivisa con gli altri, in una società postmoderna dove ci si accorge prima o poi di vivere spesso come atomi freddi sospesi nel nulla».
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