sabato 22 febbraio 2014
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Dopo l’approvazione, nel 1998, della legge che l’ha definitivamente riconosciuta come "diritto soggettivo", l’obiezione di coscienza al servizio militare ha cessato di appassionare i giovani. Dal 2005, poi, con la sospensione della leva (sospensione, si badi, non soppressione), il problema è stato definitivamente derubricato. Ma per i sessantenni di oggi l’obiezione di coscienza ricorda uno dei più appassionanti e tormentati dibattiti avvenuti nel nostro Paese nei decenni postbellici. Ed evoca figure luminose della nostra storia di quegli anni, da Aldo Capitini a Ernesto Balducci a don Lorenzo Milani. Da noi la questione si pose nel 1949, quando si verificò il primo caso di rifiuto di indossare la divisa per ragioni morali, quello di Pietro Pinna, che scontò con quasi due anni di carcere la sua disobbedienza. Prima avevano fatto la medesima scelta numerosi Testimoni di Geova, i primi addirittura durante la prima guerra mondiale, ma la loro coloritura confessionale aveva impedito che il gesto avesse risonanza. Fu il caso Pinna, seguace di Aldo Capitini, a porre la questione in termini politici e ideologici. A ricordarcelo è ora la pubblicazione del diario di Enzo Bellettato, pacifista cattolico rodigino, che obiettò nel marzo del 1968, subì alcuni mesi di detenzione nel carcere militare di Peschiera e poi il processo che lo condannò a sette mesi di reclusione con la condizionale (Diario di un obiettore. Strapparsi le stellette nel ’68, con prefazione di Mao Valpiana, Emi). Il caso Bellettato ebbe larga risonanza e contribuì al varo, nel 1972, della legge Marcora, n. 772, che riconobbe per la prima volta anche nel nostro Paese il diritto al rifiuto delle stellette. Ma quella legge servì solo ad aprire una porta, non a risolvere la questione, che, anzi, si accese ancora di più.Per tutto il decennio 1960-70, gli anni della guerra del Vietnam, il dibattito era stato infuocato, con un coinvolgimento sempre più massiccio della cultura cattolica, tutt’altro che unanime di fronte al problema, nonostante il riconoscimento della liceità dell’obiezione avvenuto con l’enciclica Pacem in terris (1963) e poi in sede conciliare (Gaudium et Spes, n. 79). Fu il processo a don Lorenzo Milani, in seguito alla pubblicazione della sua Lettera ai cappellani militari, nel 1965, che fece definitivamente esplodere la questione. La successiva Lettera ai giudici del prete di Barbiana (con la frase divenuta celebre: «L’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni») è un testo scolpito nella coscienza di un’intera generazione. Il diario di Bellettato, steso allora e qui pubblicato senza ritocchi, ci riporta l’eco delle passioni e dei fremiti di quella stagione drammatica della nostra storia: la stagione del centro-sinistra, dell’allargamento dell’area democratica, delle tensioni postconciliari. Che cosa volevano gli obiettori? Volevano che si riconoscesse come un diritto del cittadino il rifiuto di usare le armi. Che il servizio civile fosse posto sullo stesso piano del servizio militare e fosse data la possibilità di scegliere fra i due. In questo senso non servivano né la legge Pedini né la legge Marcora. La prima, varata nel 1966, ammetteva la possibilità di sostituire la leva con un periodo di lavoro nei Paesi in via di sviluppo. Ma l’applicazione ambigua svuotò l’innovazione delle sue potenzialità e la trasformò in uno strumento per pochi privilegiati, inadeguato a soddisfare gli obiettori. Né li accontentò la legge Marcora, varata nel 1972 e preferita dal Parlamento a una proposta molto più aperta del deputato Fracanzani.La legge Marcora, infatti, non riconosceva l’obiezione come un diritto, subordinava l’obiettore al giudizio di legittimità di una commissione militare e lo puniva imponendogli un servizio più lungo del servizio militare. La battaglia degli obiettori (la parola "battaglia" è impropria, contraddittoria, ma esprime bene l’asprezza dello scontro), nel frattempo raccoltisi in un movimento nazionale di pressione, la Lega degli obiettori di coscienza (Loc), durò altri ventisei anni e ottenne il suo scopo nel 1998, quando il Parlamento varò la legge (n. 230) che finalmente riconosceva il rifiuto delle armi come un diritto del cittadino, poneva il servizio civile sullo stesso piano di quello militare e trasformava l’obiezione da generoso beneficio accordato dallo Stato in diritto inerente la persona. A riprova delle resistenze che incontrava tale riconoscimento, basterà ricordare che una legge simile, approvata nel 1992, era stata bocciata dall’allora presidente Cossiga, che si era rifiutato di firmarla per incostituzionalità.Da allora sembra passato un secolo, mentre sono trascorsi solo quindici anni. Oggi il servizio militare, di fatto, non esiste più, mentre quello civile è stato ridotto ai minimi storici. E i giovani, in questa grigia stagione della nostra storia, stanno perdendo anche la memoria delle passioni e delle sofferenze che costò questo radicale capovolgimento della cultura del nostro Paese.
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