sabato 18 aprile 2015
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​Nell’edizione definitiva dei Promessi sposi, pubblicata a fascicoli tra il 1840 e il 1842 e illustrata da Francesco Gonin, la figura della Monaca di Monza si affaccia sette volte in abiti monacali: cinque nei capitoli IX e X, dedicati all’incontro con Lucia e alla ricostruzione psicologica di Gertrude, una nel XX (in prossimità del rapimento, quando la Signora chiede alla giovane sventurata di fare un’“imbasciata”), un’ultima nel XXXVII, quando Manzoni riannoda i fili dell’invenzione letteraria con i tratti reali di suor Virginia Maria de Leyva, riportando le notizie conclusive di quella “trista storia”: accuse, processo, condanna, ravvedimento. E per legittimare il discorso dal punto di vista storico (ma anche per delegare ad altre discipline il compito di far cronaca) chiama a testimone Giuseppe Ripamonti. Poco importa che tra la vicenda documentata e i fatti del romanzo ci sia uno sfasamento di tempo: nel 1630, quando si concludono le peripezie di Renzo e Lucia, la Signora ha già scontato la sua pena nella cella del convento di via Santa Valeria, a Milano, dov’è rimasta murata tra il 1608 e il 1622, anno in cui viene liberata. Poco importa perfino che tra la Geltrude del Fermo e Lucia e la Gertrude dei Promessi sposi corra una certa distanza in termini di varianti narratologiche e che l’eccesso divagatorio venga temperato da un ripensamento ellittico. Quel che conta è l’esemplarità del soggetto narrato, non il pedante rispetto delle fonti e c’è sicuramente un motivo se fra le illustrazioni finite tra le pagine della Quarantana solo nell’ultima la Signora è raffigurata in ginocchio, a mani giunte, di fronte a un crocifisso e a un breviario: espressione inconsueta rispetto alle precedenti che ci hanno abituato ad atteggiamenti non sempre conformi allo status religioso.
Se è vero che I promessi sposi è un’opera da guardare prima ancora che da leggere (ce lo suggerisce Salvatore Silvano Nigro introducendo il testo nei tascabili Einaudi del 2012), il codice visivo non fa solo da corredo alle parole, è qualcosa di più: un completamento, addirittura un elemento fondante la natura essenziale del racconto. Il discorso calza perfettamente proprio intorno all’ultima fra le immagini realizzate da Gonin, desunta dalle informazioni contenute nel libro ma in grado di cogliere a suo modo la verità documentaria: constatato il ravvedimento della colpevole, il cardinale Federico Borromeo intese avviare con lei un dialogo epistolare e utilizzare poi i materiali per una sorta di biografia esemplare. Un’operazione di tal genere, che poteva risultare un azzardo ma che rientra nell’orizzonte cristiano di un individuo come Borromeo – anch’egli prestato dalla Storia alla historia –, oggi non sarebbe nota se Ermanno Paccagnini non avesse scovato le carte negli archivi della Biblioteca Ambrosiana, accompagnandole alle stampe con il titolo Di una verace penitenza (La Vita Felice, 2000). Sappiamo bene quanto abbia esitato Riccardo Bacchelli nel giustificare se fosse davvero necessario sussurrare alle orecchie di una Lucia ormai salva l’epilogo toccato a suor Virginia, facendo così uscire il personaggio dalle stratigrafie del romanzo e incanalandolo nelle pieghe anonime del reperto storiografico. Ma è la sua natura contraddittoria a prendere il sopravvento sia nei capitoli del libro che nei disegni di Gonin; una natura capace di concentrare su di sé romanzo gotico e bildungsroman e che con grande probabilità ha tenuto sulle spine il suo autore, indeciso se assolvere o condannare, se sopprimere dal suo capolavoro una vicenda così turpe o se, meglio, relegarla a «quegli accenni così sapienti e suggestivi», come scrisse Michele Barbi.
In realtà i casi accaduti prima e dopo che la “sventurata rispose”, pongono problemi invece che dare soluzioni, a cominciare dai pronunciamenti di tipo etico con cui sono stati costretti a cimentarsi soprattutto i lettori di parte cattolica: troppo facile e scontato, infatti, stigmatizzare i comportamenti della Signora, tanto più in presenza di uno scrittore dallo spessore di Manzoni. In realtà la sua figura costituisce, nel bene e nel male, uno degli architravi del romanzo: è Giovanni Testori ad accorgersene lavorando alla trasposizione teatrale nel 1967 e nel 1985. Sarebbe stato indispensabile mettere a confronto Promessi sposi e Osservazioni sulla morale cattolica per individuare in Lucia e in Gertrude i tratti di due «donne infelici nella profonda diversità della loro storia» (così Francesco Mattesini). In egual misura, sarebbe stato necessario indagare anche fra gli atti giudiziari, incamminarsi nella direzione del documento, operazione condotta con grande perizia dallo stesso Paccagnini e da Giuseppe Farinelli in Vita e processo di suor Virginia Maria de Leyva monaca di Monza (Garzanti 1989), per comprendere una verità che salda vero e verosimile e ristabilisce un equilibrio tra storia e invenzione, dal momento che – afferma Farinelli – «Gertrude e Virginia Maria, per grazia d’arte e non di documento, [...] operano in simbiosi».
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