lunedì 12 dicembre 2011
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Siamo arrivati. Lo capisco dalla frequenza delle torce resinose che illuminano come possono lo spoglio teatro della nascita quasi all’addiaccio; una scena disadorna, appena lambita dai riflessi dei lumi che ogni tanto finiscono di bruciare e si smorzano, un insieme miserevole con la regia di Dio che per suo figlio l’ha voluta esattamente così: una baracca, un bue (lo intravvedo nelle penombre dell’interno), un asino che potrebbe essere l’asino di famiglia, comprato coi guadagni del carpentiere Giuseppe e arrivato anche lui fino a Betlemme per farvi la sua parte. Tutti predestinati al ruolo del farsi circostanti al protagonista neonato che è là; lo presumo per ora da dietro le teste della folla assemblata decisa o rassegnata a concedersi – visto che gli angeli non hanno fatto che ridirlo – al valore di un insieme desolante ma ad alto contenuto: un Pargolo di verticale lignaggio. I pastori analfalbeti rozzi, irsuti, non sembrano aver dubbi né esitazioni. C’è chi tra loro ha posato il ginocchio a terra perché il ginocchio s’è piegato da solo, è andato giù, davanti a chi era atteso perché spiegasse al mondo che c’è e ci sarà infinitamente dell’altro: le ragioni del cielo, per esempio; la redenzione a portata di mano, basta che anche il cuore, la mente e ogni intimo sentire si dirozzino e intendano che ogni colpa può essere rimessa da quel Bambino che crescerà tra le pieghe dei giorni e dirà cose difficili per chi si vanta del senno personale e dell’acume; e cose facilissime per chi – invece – si sradichi, si svella, si liberi dall’orgoglio di decifrare da sé i rebus del mondo impietrito dall’autonomia di giudizio e dal ripetersi: ma quale bambino di Betlemme? Ma quale Cristo, quello là della solfa di Natale? Quello delle dicerie dei gonzi? La notte va stemperandosi nel prodigio: esser qui in tanti, con sempre nuova gente che arriva, tutti per contemplare quasi muti, tutti pervasi da quel che vedono e di cui hanno saputo: «State svegli e stupiti: il Figlio di Dio è là, sotto il fiato a mantice del bue da lavoro e del ciuco da soma. Siamo noi angeli a garantirlo». E come si fa a non credergli? Sono angeli perbene e così belli da dover considerare supreme le loro parole aeree, il loro dire e ridire volando bassi, sfiorando le teste, impennandosi e poi cabrando leggeri come piume. Che avventura essere qui a fare la parte del primo popolo ammaestrato da un Bambino che ha pianto poco fa perché va ripulito, sottratto alle coperte grezze che qualcuno gli ha procurato per ricoprire il nido impagliato, e adesso è in braccio alla madre; con intorno le donne che prendono acqua dal vasellame rustico e aiutano la signora Maria a mondare come meglio si possa il figliolino. Non ha i riccioli d’oro come verrà poi raffigurato ma è una creatura del suo popolo, i capelli neri come già si intravvede, la pelle appena olivastra detersa con pannicelli d’occasione.
E del resto, se il Bambino Gesù non fosse nato nel tempo stabilito a Betlemme, ma oggi, qui, da noi, tra noi gravati dai dubbi, in un luogo qualsiasi d’Europa o di chissaddove, in Asia o in un’isola degli Oceani, come sarebbe il Presepio così ben pensato dall’immaginazione di Dio per diventare provocazione perenne? Il Bambino sarebbe al tepore in una culla d’ospedale pediatrico, avrebbe i pannolini idrorepellenti, il succhiotto, il biberon, il latte artificiale per non sfiancare la madre affranta dal parto. E Giuseppe non pagherebbe niente. Sarebbe assistito da un servizio sanitario nazionale, la mutua dei maringoni e carpentieri. Rifletto: sarebbe scandaloso, o fiacco, o disadorno, un Presepio così? Per niente, mi rispondo. Perché quel Gesù di quattro chili o pressappoco non fa che rinascere appena un vivente lo prenda in considerazione. Il film della salvezza vien sempre attualizzato. Maria continua a fare la sua parte. Giuseppe è sempre lui. Cristo in fasce non è di quella volta là, nel capanno disastrato, sotto la volta del fieno riposto. Cristo in fasce ricomincia ogni volta che lo si richiami in vita per dargli retta e non levarselo di torno. Cristo non ha bisogno di una scenografia fissa e memorabile. Si dice sempre ai cristiani di vedere, di saper scorgere, di intuire il volto di Cristo in qualunque contemporaneo per rispettarlo e condividerlo. Il volto di Cristo lattante è nei bambini di ogni epoca, il Cristo viandante si propone in ogni prossimo, il Cristo lancinato si fa compagno di chi venga trafitto dal dolore. Il Presepio è la prima nota di una sinfonia contenuta nell’aria di ogni tempo, di ogni luogo, e va percepita, ascoltata, intesa. La sfida di Cristo è perpetua, come perpetui sono i giorni del suo dire e del suo patire. Il Presepio non è in costume. Tutti i personaggi che lo compongono e lo circondano vanno pensati anche vestiti come noi. Il Presepio è la prima pagina di un sillabario che ha l’ultima pagina insanguinata.
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