mercoledì 25 marzo 2015
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AColin Crouch, politologo britannico, docente emerito all’Università di Warwick, è legato il concetto di “Postdemocrazia”, dal suo libro omonimo (edito in Italia da Laterza) in cui agli inizi degli anni 2000 ha messo in guardia dalla deriva oligarchica delle moderne democrazie. Con il suo ultimo Governing social risks in post-crisis Europe (“Governare i rischi sociali nell’Europa del dopo-crisi”), da poco uscito per le edizioni Edward Elgar, continua la sua analisi stavolta con l’occhio puntato al mercato del lavoro. Tema di cui parlerà anche sabato alla Biennale Democrazia a Torino.Professor Crouch, nel suo ultimo saggio lei fa notare che per quanto riguarda diritti e tutele dei lavoratori, sembra di tornare indietro nel tempo, di decenni: tutto ciò è inevitabile? Fa parte di un ciclo fisiologico o è il risultato di scelte precise da parte del capitale e della politica, che potrebbero prendere anche altre direzioni?«C’è come un movimento a ritroso e questo è indubbio. Le cause principali sono il declino della società industriale, particolarmente della classe operaia, e l’affermarsi della globalizzazione, che aumenta il potere del capitale su governi e ceti popolari. Altre direzioni sarebbero possibili – con diritti dei lavoratori più adeguati a un’economia postindustriale – ma per questo serve un assetto di potere meno sbilanciato di quello attuale».Lungo tutto il ’900 la conquista di nuovi diritti e garanzie dei lavoratori è avvenuta con grandi lotte sociali. Oggi la loro erosione, in nome di una maggiore flessibilità ed efficienza del mercato del lavoro, sta avvenendo senza grandi sollevamenti. Perché secondo lei? Sono le nuove generazioni ad essere rassegnate, o c’è un disagio che non trova i canali per esprimersi di una volta, per esempio i sindacati?«Questa perdita di diritti è un processo graduale e quindi meno drammatico. E i nuovi ceti dell’impiego post-industriale – con l’eccezione degli impiegati pubblici – trovano più difficoltà ad organizzarsi. La precarietà non rende facile una tale organizzazione. Non solo: la classe operaia industriale si è battuta spesso allo stesso tempo per la cittadinanza politica e per i diritti del lavoro. L’esclusione politica ha reso in un certo senso più facile prendere coscienza dei propri interessi. Oggi, il fatto che la cittadinanza politica sia universale, rende questo riconoscimento paradossalmente più difficile».A lavoratori più precari, a un diffuso senso d’incertezza riguardo al futuro, dovrebbero corrispondere minori consumi. Minori consumi vuol dire anche minori entrate per il fisco, quelle con cui lo Stato deve pagare il welfare e i sussidi per la disoccupazione: come può reggere un sistema simile? «Questo è il grande problema che ci troviamo ad affrontare. Anche secondo un economista autorevole come Joseph Stiglitz e l’Ocse stessa, la disuguaglianza dei redditi è arrivata a un livello che minaccia la sostenibilità dei consumi. Tra il 1975 e 2007, negli Usa il 46,9% della crescita economica è andata a beneficio dello 0,1% della popolazione; nel Regno Unito il 24,3%, in Italia l’11,5%. Non possiamo risolvere il problema semplicemente bloccando i cambiamenti che producono precarietà e incertezza, servono politiche che aiutino ad affrontarli: serve un impegno dello Stato a sostenere il welfare, con sussidi per chi perde il lavoro e possibilità di formazione professionale. Queste misure sono ben conosciute e si trovano, particolarmente nei Paesi nordici. Ma le politiche di “austerità” non le permettono. C’è bisogno dunque di cambiare questo contesto, affinché siano possibili. Per l’Italia sarebbe un dibattito assai più rilevante che quello sull’articolo 18».Non pensa che nella discussione su flessibilità, sicurezza, mercato del lavoro più efficiente ecc. ci sia spesso un grande assente: la demografia? Ovvero, non pensa che fino a quando l’Europa non tornerà ad avere un saldo demografico positivo non c’è ricetta in grado di assicurare una crescita economica sostenuta e stabile nel tempo? «Certo, abbiamo bisogno di più lavoratori. È uno sbaglio pensare che una popolazione più grande renda più difficile trovare lavoro per tutti. Il lavoro crea lavoro, perché chi lavora paga le imposte, quindi sostiene le finanze pubbliche, e ha denaro da spendere. In una società post-industriale si comprano servizi e i servizi hanno bisogno di lavoratori. Questo è particolarmente vero per il lavoro femminile. Quando una donna entra nel mercato di lavoro, crea lavoro per chi deve preparare il cibo, per chi deve pulire la casa, ecc. Per lungo tempo è stato uno sbaglio – anche della Chiesa – pensare che se le donne fossero rimaste a casa avrebbero fatto più bambini, scoraggiando così politiche per rendere più facile abbinare lavoro e maternità. Nei Paesi del Nord Europa, o anche in Francia e nel Regno Unito, si sono sviluppate politiche per incoraggiare questa possibilità. Oggi questi Paesi hanno una natalità più alta di quella della Germania o del Sud Europa. Non va dimenticato poi che tutti i Paesi avanzati hanno bisogno in varia misura dell’apporto degli immigrati per mantenere alto il proprio livello di natalità. Immigrati che sono generalmente più giovani di noi “nativi” e perciò lavorano».Una certa dose di rischio, nella vita come nel lavoro, rende più dinamici. Il rischio deve però essere distribuito equamente fra i vari attori in gioco. La crisi finanziaria del 2008 ha dimostrato che i rischi presi dalle grandi banche sono poi stati coperti dagli Stati, quindi sono ricaduti sulla popolazione. La politica non dovrebbe ritrovare il proprio ruolo di regolatore dei rischi?«Questo è vero. Serve una regolazione internazionale della finanza che eviti una situazione di questo tipo. Non una regolazione eccessiva, come direbbe il governo britannico. Se gli Stati devono accettare i rischi del sistema, hanno il diritto di controllare tali rischi. Ricordiamo lo slogan del 2007, secondo cui le grandi banche erano too big to fail, troppo grandi per poter fallire. Ciò vuol dire che essere non si trovavano in un vera condizione di mercato, perché nel mercato è sempre possibile che falliscano un paio di aziende senza fare danni al sistema. Se manca un vero mercato, ecco che serve una regolamentazione».
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