martedì 8 aprile 2014
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«Ho una relazione particolare con l’Italia, da cui ho ricevuto tanto e che mi ha fatto tanto bene negli anni. Amo incontrare i miei lettori italiani e sono essenzialmente loro il pubblico di questo spettacolo. Sono stupefatto dalla familiarità che dimostrano con la mia opera». Da metà febbraio, lo scrittore francese Daniel Pennac si è lanciato con gusto in una tournée sui palcoscenici italiani, dove interpreta brani del suo romanzo-diario Storia di un corpo (Feltrinelli, 2012), che ruota attorno alle sensazioni corporee trascritte in un diario, per tre quarti di secolo, dalla voce narrante. Si tratta di un libro che pare quasi inaugurare un genere nuovo. In proposito, l’autore sorride: «Tanto meglio. Trovo in fondo interessante che certe opere esprimano più di altre una loro autonomia».  Daniel Pennac, il suo diarista scrive da ragazzo che «la voce è la musica che fa il vento attraversando il corpo». Il destino teatrale del libro era già quasi scritto? «No. In realtà, quando l’ho scritto non pensavo affatto di farne una lettura pubblica. Lavoravo invece a un altro progetto di lettura su un libro di Pessoa. Ma Clara Bauer, dopo aver letto il libro, mi ha detto che voleva assolutamente portarlo in scena. Mi sono lasciato convincere».Come descriverebbe il legame fra il libro e lo spettacolo?«Questo spettacolo è essenzialmente il frutto delle immagini che Clara Bauer aveva in testa quando ha letto il libro e che ha desiderato riprodurre. La scelta dei testi è dunque sua».  Cosa la attira nel mettere la sua stessa voce d’autore al servizio del testo?«Sono personalmente un grande consumatore di testi letti a voce alta. Amo ad esempio ascoltare un buon attore come André Dussollier quando legge Alla ricerca del tempo perduto. Da sempre, poi, pratico anch’io la lettura a voce alta. Lo facevo già come professore con i miei studenti, anche per riconciliarli con la lettura a voce bassa. Lo faccio in famiglia. È un modo per transitare, viaggiare in un testo attraverso uno strumento che amo moltissimo. Amo le voci di tutti i giorni, quelle alla radio o della gente che incontro. Le voci organiche, non le voci operistiche». Ciò riempie o completa il silenzio della scrittura?«Ho sempre fatto transitare nella voce ciò che scrivo. Dunque, per me la scrittura non è mai davvero silenziosa. È un modo per sentire la musicalità di un testo, per comprendere quanta parte vi è di poeticità e quanta di senso. Utilizzo la voce come una sorta di laboratorio permanente».Dopo la guerra, il narratore racconta l’emozione intensa provata bevendo nuovamente un caffé. Simili emozioni offerte dal corpo sono sempre una sfida per chi scrive?«Assolutamente. È qualcosa di cui mi rendo sempre più conto. Del resto, lavoro da tempo a ciò che chiamo un dizionario delle parole mancanti. In ogni lingua, soffriamo di buchi lessicali che riusciamo talvolta a colmare prendendo in prestito parole più precise in un’altra lingua. La penultima parola entrata nel mio dizionario è italiana, "mammone", che manca in francese. In realtà, questo diario di un corpo è un diario delle sensazioni e mi è capitato abbastanza spesso d’imbattermi in parole mancanti. Ho dunque fatto ricorso a metafore o approssimazioni». Il corpo è dunque più vero della lingua?«Direi che il corpo ha la sua verità universale. Poi, ogni lingua l’esprime a suo modo. Sul piano delle sensazioni, mi rendo conto ad esempio che il lessico inglese è infinitamente più ricco di quello ispanico o francofono. Lo si scopre leggendo dei buoni autori anglosassoni, in particolare Cormac McCarthy. Il suo ventaglio lessicale delle sensazioni è molto più sviluppato del nostro. Quando descrive un albero, abbiamo così l’impressione di diventare vegetali. Da questo punto di visto, la sua prosa è magnifica». Scrivendo alla figlia, il narratore osserva che la nostra società tace sul rapporto fra corpo e spirito...«Da scrittore, ho provato il bisogno di affrontare questa ritrosia sociale. Il narratore spiega che c’è un contrasto enorme fra il silenzio dettato dal pudore e la straordinaria esposizione fisica che la nostra società consumistica impone all’immagine del corpo. Il corpo è fotografato ed esposto sotto tutti i registri possibili e immaginabili, come la pubblicità, lo sport, le scansioni mediche, la body art e così via. Nei media, si mostra il corpo fino alla nausea assoluta. Ma al contempo, il silenzio sulla nostra relazione con il corpo resta oggi profondo quasi quanto lo era nell’Ottocento». Questo silenzio è pure una forma di distrazione?«Direi soprattutto che spesso non desideriamo ascoltare il nostro corpo. Anche perché il corpo sa sempre coglierci di sorpresa. E possono essere cattive sorprese. Ma cessano di essere cattive sorprese quando riusciamo a sdrammatizzare. Quando l’ascolto diventa quotidiano e pacificato».La malattia è pure un modo non voluto con cui s’impara dal corpo?«Le malattie che si ripetono sono in effetti un modo per imparare dal corpo. È ogni volta una sorpresa, pur nella ripetizione di sintomi analoghi. Ogni volta, riscopriamo un po’ il nostro corpo. E poi, ci sono le malattie che non finiscono. In questi casi, esse tendono quasi a divenire il corpo e una sorta di seconda nascita. In modo doloroso, ci si riabitua a un corpo che nondimeno può continuare a suo modo a trarre profitto dalla vita». A un certo punto, il narratore si definisce come un "traduttore". È un po’ la sensazione che ha provato scrivendo?«Sì. Ed è vero che questa traduzione può pungolare la curiosità del lettore e dello spettatore nei confronti del corpo. Forse, può persino mostrare una via per sdrammatizzare il corpo. Ma non si tratta affatto di una mia intenzione deliberata. Non desidero dare lezioni a nessuno. È un testo che in effetti ha giocato pure questo ruolo. Ma l’ho capito solo dopo, ricevendo delle lettere dai lettori».
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