venerdì 27 aprile 2012
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​Una fascinazione del disfacimento dentro una tensione umana e intellettuale altissima. Sapevano discendere all’inferno. Sapevano che esiste. Già qui. E pur mostrarono la tenerezza indicibile, l’altezza di un bene, di una gioia dura. È questa la cifra comune, baudelairiana, dei due principali scrittori-lettori della mutazione culturale italiana novecentesca. C’è una vicinanza umana più che intellettuale. O meglio una vicinanza a quel livello dove è impossibile distinguere. In un teatro di passione, di lucidità, di scarti, di opacità e di splendori che risulta refrattario a qualsiasi definizione plausibile e semplificatoria. Pasolini fu un intellettuale di sinistra? O Testori uno scrittore cristiano? Che senso hanno tali definizioni che vengono perpetuate dall’esercito di passacarte che tentano di bloccare in paludi di noia ideologica la forza d’evento della poesia? I due erano fuori da ogni definizione possibile, specie da quelle in voga nell’epoca loro di cui la nostra è figlia bastardissima. Erano da un’altra parte, insieme e pur così diversi, rispetto ai teatri ormai cadenti di una modernità fasulla e tetra. Erano dove non c’è rimedio. Ne è segno il dolente, sincero articolo che Testori scrisse sull’“Espresso” qualche giorno dopo la morte di Pasolini. Una “testimonianza personale” su cosa muoveva la loro fame e su quale esito tale fame avesse, nelle notti «quando ci si alza dai tavoli delle cene perché gli amici non bastano più; quando non basta più nemmeno la figura della madre». Testori scrive che anche Pasolini conosceva il momento in cui «dentro la notte che è negra come il grembo da cui veniamo e come il nulla verso cui andiamo comincia a crescere dentro di noi un bisogno infinito e disperante di trovare un appoggio, un riscontro; di trovare un “qualcuno”; quel “qualcuno” che ci illuda, fosse pure per un solo momento, di poter distruggere e annientare quella solitudine; di poter ricomporre quell’unità lacerata e perduta». Ancora unità perduta, il fantasma del due. Ancora Baudelaire.Ci sono tratti comuni più specifici? Ce la si può cavare con la baggianata de «il ruolo dello scrittore nella società»? I due non partivano per il loro scandalo certo dal «ruolo che lo scrittore bla bla bla» ma da lì, dal centro insopportabile e propulsivo di se stessi. Una energia nucleare che li ha portati a traversare ogni genere, a esporsi fisicamente a offrirsi all’applauso e al ludibrio, a cacciare il viso nelle pagine più sperdute della cultura italiana o negli anfratti più bui di luoghi del degrado. Che energia era? L’ omosessualità? No, ben altro, ben di più. A cui la sessualità (di tutti) può far da detonatore e specchio. Fame di realtà insidiata dall’orrore del “non-reale”. Solo il reale non lascia soli, quando se ne tocca il senso amoroso. In quegli anni si viveva o moriva di “realismo” nelle patrie lettere. La nuova “religione”, essendo una religio della materia e della economia, lasciava nei veri realisti Pasolini e Testori inquietudine e spazi eretici. Entrambi si sgolarono contro il peccato di “astrazione” a cui il “realismo” letterario e politico non rispondeva. Gridarono l’orrore di vita finta che da un lato subiva la società intera (grazie all’omologazione televisiva, ma anche grazie a leggi come l’introduzione dell’aborto) e dall’altro lato subivano la intellighenzia comunista e la rigidità di buona parte della cultura cattolica.Entrambi hanno funzionato come contraddizione nel proprio stesso campo. Ma occorre una precisazione tagliente come ghigliottina: dire che furono intellettuali contro il potere, intendendo il sistema politico-economico del loro tempo, è sbagliato, ingenuo. Se così fosse stato non li avrebbero fatti scrivere sulla prima pagina del “Corriere della Sera”. Il “sistema” non offre certi palcoscenici a intellettuali veramente “contro”. Il che non inficia quel che Pasolini e Testori scrissero della loro epoca. Lo rende più interessante, non schiacciato sulla lotta politica o economica del momento. Hanno la profondità dei poeti e degli antropologi, non la fregola dei polemisti. Soffrirono e indicarono nella loro epoca e nella nostra la presenza del Potere maligno che ruba il reale alla vita. Un privilegio mostruoso. Ma Pasolini, mi disse una volta Testori, oppose al Palazzo del potere un Palazzotto simile – quello della cultura e dei salotti romani, che mai accolsero Testori e che dominarono. È vero, ma credo che Pasolini in realtà sfruttasse quei salotti sostanzialmente per campare più che per omogeneità. Il suo senso sacro della vita è lontano dal nichilismo dolente e riparato di Moravia. Si ha però l’impressione che Pasolini resti nella cultura, disperandosi infine di una apocalisse che divora i suoi giovani amati divenutigli orrendi. E se esce dalla cultura, purtroppo, è per entrare nella morte o nella moda. Testori è uscito dalla cultura per entrare nella bestemmia e nella preghiera (la Bestemmia di Pasolini era invece titolo di un libro). In una “via crucis” come scrive in quell’articolo. E questo lo ha reso vicino al cuore di molti, se pur più appartato dai riflettori.
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