giovedì 29 ottobre 2015
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Qualche mese fa, in primavera, lo hanno invitato a un dibattito su Salò o le 120 giornate di Sodoma, il film terribile e violentissimo che Pier Paolo Pasolini sembra lasciare come testamento alla sua morte, il 2 novembre del 1975. «Gli organizzatori cercavano un elemento di normalizzazione – spiega padre Virgilio Fantuzzi, storico critico cinematografico di “Civiltà Cattolica” – ma non sono sicuro di aver svolto bene quel compito. Per me il cinema di Pasolini va considerato nella sua interezza, al di fuori di ogni pregiudizio». Da Accattone, l’esordio del 1961, a Salò, dunque. Con una lunga tappa dalle parti del Vangelo secondo Matteo, il capolavoro del 1964 che segnò l’inizio dell’amicizia tra il poeta-regista e un Fantuzzi all’epoca ventisettenne, seminarista gesuita che muoveva i primi passi nell’ambiente della critica cinematografica. «A rendere possibile l’incontro con Pasolini – ricorda – fu un altro regista, Valerio Zurlini».Come mai voleva conoscerlo?«Dalla metà degli anni Cinquanta Pasolini era accompagnato da una pessima fama. Non solo sul piano artistico (pensi al processo per il romanzo Ragazzi di vita), ma anche su quello personale. Da quanto leggevo sui giornali, non potevo che pensarne tutto il male possibile. A maggior ragione, la visione del Vangelo secondo Matteo mi lasciò tramortito per la sua forza artistica. Un film così non l’avevo mia visto, solo Dreyer e più tardi Tarkovskij si spingono a quel livello. Ma un problema restava ugualmente».Quale?«Durante la conferenza stampa alla Mostra del cinema di Venezia, rispondendo alla domanda diretta di un giornalista, Pasolini aveva affermato di non credere che Gesù fosse il Figlio di Dio. Ecco, per me questa affermazione non poteva andare d’accordo con il film che avevo visto. C’era una contraddizione insanabile tra l’emozione (religiosa, oltre che estetica) suscitata dal Vangelo secondo Matteo e quell’affermazione del regista. Ero giovane, lo ripeto, e molto zelante. Più che altro, volevo capire».Ci è riuscito, alla fine?«Pasolini mi accolse nel suo appartamento di via Eufrate all’Eur e, prima di tutto, mi sottopose a quello che tecnicamente si definisce “esame di vocazione”: voleva sapere perché avessi scelto di farmi sacerdote, capire quanto fosse profonda la mia convinzione. Quando fu il mio momento, gli chiesi conto della disparità fra la sostanza spirituale del film e la sua dichiarazione di ateismo. La risposta di Pasolini fu laconica, quasi fuorviante: “I giornalisti non dovrebbero fare certe domande”, disse».Che cosa intendeva, secondo lei?«Anzitutto che non mi dava torto e, anzi, gradiva il mio interessamento. Ma preferiva che fossi io a trovare la soluzione. Per me è stato l’inizio di un’amicizia durata dieci anni e di uno studio che non si è mai interrotto. Ancora oggi, ogni volta che vedo Il Vangelo secondo Matteoscopro qualcosa di nuovo. E mi confermo nella mia convinzione: potrà essere arduo sostenere che è il film di un credente, ma di sicuro è il film di un poeta. Mentre lo girava, secondo me, Pasolini ha avuto un’esperienza autentica, quasi una conversione a sua insaputa».E il resto del suo cinema?«Le pellicole precedenti, e cioè Accattone,Mamma Roma e La ricotta, sono tre Viae Crucis mascherate. Neppure tanto mascherate, verrebbe da aggiungere, se si pensa che nell’ultimo film il povero Stracci muore sulla croce, come Cristo. Mi viene in mente un’espressione molto cara a papa Francesco, quella per cui i poveri sono “la carne di Dio”. Nei suoi primi film Pasolini ci dice qualcosa di simile, sia pure con un linguaggio poco ortodosso o, per essere più precisi, non in linea con certo devozionalismo sdolcinato, che non ha nulla a che vedere con la durezza di tante pagine del Vangelo».I problemi semmai vengono con i film successivi, no?«Uccellacci e uccellini è un esempio ancora oggi interessantissimo del tentativo di dialogo tra cattolici e marxisti. Una scena come quella dei comunisti che si fanno il segno della croce davanti alla bara di Togliatti è la dimostrazione che, per Pasolini, la riflessione sul sacro non si chiude con Il Vangelo secondo Matteo. Anche se il film su san Paolo è stato da lui solo progettato e mai realizzato, le tracce di questa ricerca restano evidenti anche nei film più controversi, per esempio in Teorema, dove il personaggio dell’Ospite, interpretato da Terence Stamp, è un’immagine del Dio che visita gli uomini fino allo scandalo dell’incarnazione. Qui interviene la metafora del sesso, che ancora oggi può disturbare. Però è la stessa metafora che si trova nella Bibbia, a partire dal Cantico dei Cantici. L’Ospite è una figura destabilizzante, ma anche Dio lo è».La sessualità ha un ruolo determinante nella cosiddetta “Trilogia della vita”.«Senza dubbio nel Decameron, che mi sembra il film più riuscito della Trilogia e nel quale Pasolini si spinge a correggere la religiosità stessa di Boccaccio. La questione più delicata riguarda appunto Salò. Per la trama Pasolini si appoggia agli scritti del Marchese de Sade, che nel Settecento aveva immaginato torture e vessazioni destinate a diventare realtà durante la Seconda guerra mondiale, con l’occupazione nazista di cui Pasolini stesso era stato testimone. Questo è il racconto, per il quale il regista sviluppa un impianto teorico che coincide con la denuncia del potere e della sua pretesa di profanare la sacralità del corpo. Altro tema attualissimo, se si considera l’insistenza con cui papa Francesco si oppone allo strapotere dei mercanti di armi e di tutti coloro che trattano le persone come cose. Ma c’è un ulteriore livello di lettura, per me fondamentale. In Salò Pasolini esplora il proprio lato oscuro e si congeda dal mondo con un De profundisintensissimo, una richiesta di purificazione dall’alto conseguita attraverso un’operazione di totale trasparenza con se stesso».
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