mercoledì 30 aprile 2014
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Latitanti difesi a spada tratta dal Partito comunista, minacciati assalti alle carceri da parte dei partigiani, e sottrazioni alla giustizia di responsabili di delitti efferati: è il quadro impressionante delle illegalità diffuse, nel Comasco, dopo la sparizione del tesoro di Mussolini, il famoso «oro di Dongo», secondo quanto emerge da alcune carte supersegrete che si riteneva fossero andate perdute.Si tratta di una serie di «riservatissime» inviate al capo del governo dalle massime autorità lariane, verso la fine del 1945, per segnalare l’impotenza dei pubblici poteri, incapaci di restaurare l’ordine. Rapporti allarmati, nei quali sia il questore sia il prefetto della Liberazione, entrambi antifascisti, denunciano pratiche illegali assai estese e le resistenti connivenze ambientali di parte della popolazione con gli «squadroni della morte» che avevano diffuso il terrore tenendo in ostaggio la società civile.Il questore di Como, l’avvocato Davide Luigi Grassi, liberale, al processo di Padova del 1957 sull’«oro di Dongo» affermò di non disporre di copie di quegli atti ufficiali, i quali però furono trascritti, forse a sua insaputa, da un collaboratore, il capo dell’ufficio politico della Questura lariana Luigi Carissimi-Priori: l’uomo che trafugò anche una copia fotografica del carteggio Churchill-Mussolini.Carissimi-Priori, prima di morire, consegnò a chi scrive i testi di quei rapporti. Il primo di essi, senza data, e redatto appunto da Grassi, ricostruisce un inedito retroscena sul furto dell’«oro di Dongo». Si tratta di quasi 36 chilogrammi di oggetti aurei, ripescati dal fiume Mera, e depositati insieme a 30 milioni di lire nella filiale della Cariplo di Domaso. Finora si ignorava che la Questura di Como, già il 1° maggio 1945, avesse tempestivamente inviato in alto Lario un funzionario della Banca d’Italia, con scorta armata della polizia, per prelevare il malloppo e chiuderlo nei caveau dell’istituto di emissione. Questa operazione venne però neutralizzata, con un raggiro, dai capi partigiani della 52ª Brigata Garibaldi, vale a dire dagli stessi responsabili della fine di Mussolini.Il dirigente della Banca d’Italia fu abilmente sviato, con la scusa che si era a tarda ora e le operazioni di sportello erano già terminate. L’indomani mattina venne scoperto l’inganno: i valori erano già stati prelevati e sottratti, con l’accordo del comando di brigata, dal partigiano comunista Michele Moretti «Pietro», da alcuni ritenuto il vero protagonista dell’esecuzione del Duce. Moretti avrebbe portato quel carico prezioso a Como, dove venne accuratamente contabilizzato prima di prendere la via di Milano, per finire nelle casse della direzione centrale del Pci.
Scrive il questore Grassi: «Da quel momento il Moretti diventa irreperibile e la sua latitanza è tenacemente difesa ed aiutata da "Francesco" [il partigiano Pietro Terzi] e da molti altri che notoriamente appartengono al Partito comunista o meglio alla tendenza estremista del partito stesso. È qui che si entra nel giallo, perché infinite sono state e sono le supposizioni, le indagini, le tracce. Solo l’arresto di Michele Moretti, se interrogato con astuzia potrebbe dare un po’ di luce in tante tenebre: ma è a temersi che, o il Moretti ove non fosse più possibile difendere la sua latitanza verrà fatto sparire non altrimenti del capitano "Neri", della "Gianna", di certa Annamaria [Bianchi] e di altri che molto sapevano o che molto volevano sapere sull’oro del Duce, o il Moretti dovrà una spiegazione tale che non condurrà ad alcun risultato positivo e si ritornerà nelle tenebre».Ma, come si diceva, Moretti è latitante, e a nulla valgono gli sforzi delle pubbliche autorità per assicurarlo alla giustizia. Il 25 dicembre 1945 il prefetto di Como, il socialista Virginio Bertinelli, invia al presidente del Consiglio Alcide De Gasperi un’altra relazione nella quale rincara la dose: «Con l’arresto del Moretti si potrebbe seguire l’ulteriore cammino e destinazione dell’oro che peraltro conducono per varie vie e secondo le notizie che si hanno, al Partito comunista di Como e di Milano, al quale e per il quale, tutti gli attori di tale vicenda appartengono e operano. Altra sintomatica circostanza è che il Moretti è sempre in contatto con compagni di tali città e ha con loro collegamenti permanenti per sue informazioni e a sua difesa. È stato notato a Milano e a Como al seguito di un funerale di un compagno, ha preso parte a una riunione di influenti compagni e attualmente si troverebbe nella zona di Mantova, insieme al compagno "Francesco" al secolo il comunista Pietro Terzi suo complice. Tal "Francesco" tempo addietro prelevò dal carcere del Battaglione della Polizia Civile di Como, in piena complicità con gli agenti e con l’allora comandante comunista Losi, il compagno "Ardente", al secolo il comunista Poncia, che era a disposizione, per i fatti dell’autocolonna [di Mussolini], del Comando alleato, il quale seppe dell’evasione dopo otto giorni, quando si recò ad interrogare l’"Ardente". Il Partito comunista nasconde e sottrae invece alla legge i colpevoli e impedisce che il Moretti parli e sia messo a disposizione delle autorità».
Questi documenti hanno una grande importanza, in quanto dimostrano due cose. Primo: smentiscono che le autorità del tempo non conoscessero i fatti e che non avessero accertato le responsabilità penali individuali in tempi anche molto celeri. Secondo: non è vero che i pubblici poteri non fossero interessati a perseguire le diffuse condotte criminose dei partigiani "rossi", il fatto è che mancavano gli strumenti legali e le condizioni politiche per farlo. Una circostanza spiega, sopra ogni altra cosa, la natura di quell’impedimento: la Democrazia Cristiana, i liberali e le altre forze moderate coabitavano al governo con il Partito comunista, il quale, con Palmiro Togliatti, deteneva nientemeno che il ministero della Giustizia. In quel contesto, era impensabile poter agire con efficacia contro il crimine politico organizzato da una determinata matrice.Le condizioni diverranno politicamente favorevoli, al tempo in cui si preparò l’allontanamento del Pci dall’area di governo, nel maggio del 1947. A quell’epoca fu impressa un’accelerazione al lavoro della magistratura, che poté cominciare a perseguire i rei di tanti misfatti. I risultati, alla fine, furono però deludenti, per tanti motivi. L’impunità purtroppo finì per trionfare, salvo poche, lodevoli eccezioni.
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