martedì 16 giugno 2015
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​Non sono stati i filosofi, gli astronomi, i fisici, i chimici, i matematici a dissipare quel sogno di felicità dopo la morte. È un navigatore che pensava di diventare pastore, un uomo che amava la natura e le sue specie, il più grande tra gli antropologi, gli studiosi della preistoria e i biologi: Darwin.Riunendo la botanica, la paleontologia, l’embriologia e la zoologia all’interno della biologia, Darwin scopre due cose che cambiano l’immagine che possiamo farci dell’universo e dell’uomo. Innanzitutto che il mondo e la vita risalgono assai più indietro nel tempo di quanto pensavano sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino, Bossuet o perfino Buffon: milioni e miliardi di anni invece di qualche migliaio. Poi che tutti gli esseri viventi discendono da un antenato comune, che le piante sono nate da un primitivo batterio, che gli animali derivano dalle piante e che l’uomo è un animale che si è messo a pensare e un primate modificato. Anticipate già da Diderot in un libro stupefacente, poi da Goethe che si chiede se tutte le forme vegetali non abbiano un’origine comune, queste scoperte avrebbero sconvolto la nostra idea del tutto intorno a noi e del niente prima e dopo di noi.Nessuno pensa seriamente che possa esserci, dopo la morte, una vita eterna né un paradiso per le lucertole, per le capinere, per i gorilla, i bonobo o gli scimpanzé. Nessuno pensa seriamente che possa esserci, dopo la morte, qualcosa di diverso dal niente per gli esseri viventi diversi dagli uomini. E allora come potrebbe esserci, dopo la morte, per gli uomini che sono scimmie chiacchierone e intelligenti, primati che si sono dati alla poesia e alla matematica, animali dotati di una lunga memoria e capaci di progettare, qualcosa di diverso che per le creature da cui discendono in linea diretta, cioè niente?
Nessuno, d’altro canto, pensa seriamente che non esista un abisso tra le meduse, gli scorpioni, i ragni e perfino le formiche e le api, pur così dotate, o le scimmie, per quanto intelligenti possano essere, e quel che chiamiamo esseri umani. A dispetto di Darwin e del suo evoluzionismo, c’è una frontiera invalicabile e di una sorprendente chiarezza tra noi e le altre creature viventi. Eccoci qua: per alcuni siamo dei primati evoluti e subiremo, dopo la nostra morte, la sorte dei vertebrati e dei mammiferi ai quali apparteniamo e delle scimmie nostre cugine. Per altri siamo radicalmente diversi da tutte le altre creature viventi e c’è in noi un pallido riflesso del divino. Dobbiamo quindi pensare che il pensiero, il linguaggio, l’amore per la verità e la bellezza, il senso del bene e del male, tutto ciò che si è per lungo tempo riunito sotto il vocabolo oggi quasi scomparso di coscienza basti ad assicurare tutta la differenza, dopo la morte, tra niente e speranza di qualcosa di ineffabile?L’idea che abbiamo, in un senso o nell’altro, del grande romanzo del tutto si gioca su questa linea di demarcazione tra il niente e Dio. Esiste solo una scelta, alla fine dei conti, e tutto si gioca in questa scelta: tra il nulla lavorato dal caso e Dio. Non possiamo sapere niente del nulla che precede il Big Bang né del nulla successivo alla nostra vita. Le cose sono talmente intrecciate che il muro di Planck e il muro della morte sono ugualmente invalicabili. Ma possiamo farci un’idea di ciò che è possibile e di ciò che è impossibile. Se l’universo è frutto del caso, se non siamo altro che un assemblaggio alla bell’e meglio di particelle deperibili, non abbiamo la minima possibilità di sperare in qualsiasi cosa dopo l’ineluttabile morte. Se Dio, al contrario, e quel che chiamiamo – a torto – il suo spirito e la sua volontà sono all’origine dell’universo, tutto è possibile. Anche l’inverosimile. Da un lato la certezza dell’assurdo. Dall’altro la possibilità del mistero.
Molti, nel corso della storia, e soprattutto ai nostri tempi, hanno scelto l’assurdo. Con le sue conseguenze. C’è della grandezza in questa scelta. Disperata. Orgogliosa. Coraggiosa. Forse per carattere, forse perché ho amato la felicità, perché detesto la disperazione, io ho scelto il mistero. Lo confesso con una punta d’ingenuità: mi sembra impossibile che l’ordine dell’universo sprofondato nel tempo, con le sue leggi e il suo rigore, sia frutto del caso. Improvvisamente, il male e il dolore acquistano un senso – a noi sconosciuto, ovviamente, ma nonostante tutto un senso. Improvvisamente, mi affido a qualcosa di enigmatico che è molto più in alto di me e di cui io sono la creatura e il giocattolo. Non sono lontano dal pensare che sia solo insensato dire: «Dio non c’è». Io credo in Dio perché il giorno sorge ogni mattina, perché c’è una storia e perché ho un’idea di Dio che non so da dove potrebbe arrivare se non ci fosse Dio.
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