martedì 16 settembre 2014
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C’era un tempo in cui era possibile salire su un treno a Londra e ritrovarsi, dopo otto giorni di viaggio, a Baghdad. Bastava prenotare una combine di Orient Express+Taurus Express e si attraversava l’Europa via Belgrado, per poi ricominciare, dall’altra parte del Bosforo, da Haydarpasa; e, via Ankara, o scendere giù verso la "Grande Siria" (piana della Bekaa, Libano, Gerusalemme, Striscia di Gaza, Il Cairo), oppure proseguire verso Est, toccando Aleppo, Nasibin, Kirkuk, Baghdad, Ur, Bassora. E per chi avesse voluto, negli anni 1930-1931, durante il massimo sviluppo della compagnia ferroviaria internazionale "des Wagons-Lits", con servizio automobilistico, si poteva arrivare anche a Teheran. Il viaggio, come recita una preziosa affiche inglese degli anni ’30, garantiva «sicurezza, velocità, risparmio».A distanza di quasi un secolo, la storia appare fantascienza, ma la mostra Il était une fois l’Orient Express, appena conclusa all’Institute du monde arabe di Parigi, ci ricorda che non ce lo siamo sognato. Tempi diversi, in cui, dal 1883, il treno serviva soprattutto a trasferire soldati verso le Colonie orientali e che, grazie all’ingegno di George Nagelmackers, trasformò la tratta della conquista di terre esotiche in percorso di metissage culturale, inventando i primi vagoni di lusso a cavallo dei due secoli.La mostra, aperta dal 4 aprile, ha avuto un vero e proprio boom di visitatori, più di 200 mila persone, provenienti da Europa, America, Paesi arabi. Jack Lang, presidente dell’Institute, non esclude di trovare un modo per riproporla e spiega che il successo è dovuto a un fattore intrinseco alla storia del treno più famoso del mondo: «Il treno come mezzo e questo treno in particolare, rivela la modernizzazione parallela di Oriente e Occidente, senza contare che in quegli anni divenne simbolo e strumento di libertà fisica e intellettuale per gli uomini ma, soprattutto, per le donne». Che questa libertà si fosse conquistata durante la Belle Epoque anche sui treni, è chiaro non appena si sia messo piede su uno dei tre vagoni che fanno parte della sezione esterna della mostra, debitrice di una marcata ispirazione da Agatha Christie, probabilmente la scrittrice che ha reso davvero famosa la linea ferroviaria nel mondo grazie al suo Delitto sull’Orient Express, poi ripreso dal film di Sidney Lumet. Soprattutto il primo, La flèche d’or, che racconta l’arte di vivere a bordo su queste case di lusso viaggianti e dove, dalla cucina in argento e metallo al salottino per il bridge degli uomini, dalle raffinatissime suppellettili di ceramica inglese e posate d’argento per il pranzo, alle sedute per la lettura dei giornali (in mostra anche una copia del quotidiano italiano La Stampa del 1933), parla, per ogni oggetto e decorazione belle èpoque, di esistenze curiose, per nulla banali, di scrittori, spie, ufficiali alti in grado, businessman o, semplicemente, di avventurieri a cui non mancavano sostanze sufficienti per farsi il giro del mondo. La seconda vettura, un wagon-lit con una scenografia sapientemente curata da Clémence Farrell, assegna una stanza a ogni personaggio passato da qui, dalla fascinosa Mata Hari all’eccentrico artista Pierre Loti de Nadar, dalla spumeggiante vedette Joséphine Baker, fino alla stanza del cadavere del "Delitto" della Christie che immette il visitatore nel terzo vagone, Le train blue, affinché risolva egli stesso l’enigma, seguendo una serie di indizi.Il treno come teatro/scena, dunque. Un concetto che si ripropone anche nella sezione della mostra interna all’istituto e che, con le pregevoli raccolte di riviste di lusso (come una copia del magazine High Life del 1886), di locandine per il cinema (tra queste, una celebrativa del film del 1958 Orient express di Rossellini con la Silvana Pampanini e Eva Bartok) e di cartoline da alberghi cinque stelle plus, come il "Pera" di Istanbul, è la quintessenza dell’esotismo orientale che si fa già business upper class per gli uomini e moda da dive per le donne. In altri termini, siamo in presenza della prima matrice aristocratica del concetto di "orientalismo" che il presidente egiziano Nasser, chiudendo il canale di Suez nel 1956 e inneggiando al panarabismo, cercò di arginare e sul quale, molti anni dopo, l’intellettuale palestinese Edward Said, punterà il dito come uno degli anelli più deboli del fraintendimento culturale tra Oriente e Occidente, di cui ancora oggi paghiamo le inevitabili conseguenze.
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