mercoledì 10 dicembre 2014
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«Perché non avete previsto la crisi?". Così, una domanda diretta, senza girare intorno al problema. Era il novembre del 2008, poche settimane dopo l’inizio della più grave crisi globale dal Dopoguerra, quando Elisabetta II, in visita alla London School of economics, schiaffò con spudoratezza regale il quesito in faccia a una pletora di economisti riuniti nel prestigioso centro britannico. Il professor Luis Garciano, direttore della Lse, ci mise candidamente la sua guancia. Replicando compito: «Vede Ma’am, a ogni passaggio e in ogni fase ognuno faceva affidamento su qualcun altro, e ognuno pensava che tutti gli altri stessero facendo la cosa giusta». Una regina, questa volta, aveva contribuito a indicare come il re fosse nudo. Ebbene sì: gli economisti avevano clamorosamente fallito. Da allora centinaia di libri e una quantità ben maggiore di studi hanno provato a rispondere alla medesima domanda. Puntando ora l’indice su modelli previsionali sbagliati, ora sulle stesse ipotesi soprastanti, rivelatesi del tutto inadeguate: la razionalità delle aspettative e l’efficienza del mercato. Il fondamento teorico dell’economia contemporanea o quanto meno il paradigma vincente. Gary B. Gorton, ex consulente della Federal Reserve e oggi di stanza alla Yale University, ha provato a scavare ancor più a fondo. Arrivando a quello che definisce un corto circuito epistemologico capace di rendere cieca la scienza economica. Sostiene Gorton: altro che «prevedere le crisi», gli economisti non sono in grado di «vederle». Non stupisce allora che un colosso bancario delle dimensioni di Lehman Brothers si sia sgretolato sotto i loro occhi provocando uno tsunami finanziario globale.Il guaio, spiega ad Avvenire in vista dell’uscita in Italia del suo ultimo lavoro (Perché non vediamo la crisi, oggi in libreria da Franco Angeli), è che da anni gli economisti sbagliano bersaglio. «Non sapevano e non sanno tuttora cosa studiare. Dopo quello che definisco "il lungo periodo di calma", durato negli Stati Uniti dal 1934 al 2007, tutti erano convinti che le crisi finanziarie sistemiche fossero un cimelio del passato: risolte una volta per tutte, non si sarebbero mai più ripresentate». «Ma le crisi finanziarie sono connaturate a un sistema di mercato. Proprio per questo i due oggetti principali d’indagine per la disciplina dovrebbero essere la crescita e le crisi. Per quale ragione ci si è concentrati esclusivamente sul primo tema abbandonando il secondo?». Il problema per Gorton è legato al modo in cui gli economisti «acquisiscono» e «producono» conoscenza. Riguarda anzitutto la loro educazione: «In larga parte sono studiosi che hanno iniziato a formarsi nei college. Si sono specializzati in ambito accademico e poi sono andati a insegnare Economia all’università. Non hanno dunque quella che potremo chiamare "esperienza sul campo". Spesso non conoscono la Storia economica: credono piuttosto che la teoria economica si auto-produca, evolva da sé stessa».Le crisi finanziare stigmatizzano secondo il professore di Yale questa evidenza. E smascherano il secondo problema epistemologico: gli economisti si sono innamorati dei numeri e hanno sacrificato la prospettiva storica per la certezza atemporale degli algoritmi. «Per come la vedo io – disse una volta il Nobel atipico Paul Krugman – la professione economica ha perso la bussola perché gli economisti hanno collettivamente confuso la bellezza, rivestita di calcoli matematici affascinanti, con la realtà. Ma se le opportunità di lavoro a Wall Street non sono affatto da disdegnare, la causa fondamentale del fallimento della professione va ricercata nel desiderio di un approccio intellettualmente elegante che desse agli economisti anche un’opportunità di fare sfoggio delle loro competenze matematiche». Questione di eleganza intellettuale, certo, ma pure, aggiunge Gorton, di comodità: «Continuano a pensare che hanno bisogno di una grande quantità di dati per studiare un problema. Per legittimare un paradigma da hard science si focalizzano così su quegli aspetti dove è possibile reperire un sacco di numeri, anche se tali aspetti sono essenzialmente secondari». Così l’economia è diventata una disciplina astorica. «Siccome i dati relativi al lontano passato non erano abbastanza ricchi per i nuovi modelli, nello studio della macroeconomia gli economisti hanno finito per concentrarsi su intervalli temporali piuttosto brevi». Rischiando in questo modo di commettere gli stessi errori.«Dopo ogni crisi finanziaria – dice Gary B. Gorton – c’è una sorta di ribellione contro il sistema bancario e salta fuori una nuova legislazione. Il Dodd-Frank Act (il complesso intervento legislativo voluto dall’amministrazione Obama per promuovere una più stretta e completa regolazione della finanza statunitense dopo lo choc Lehman, ndr) ne è un esempio: un miscuglio di idee scollegate, nessuna delle quali affronta il vero nodo del problema, quello del debito a breve, o il fatto che un sistema bancario ombra da 10 mila miliardi di dollari si stia sviluppando sotto i nostri occhi e ancora nessuno se ne occupa». Eppure tutte le crisi finanziarie, alla fine, sono per prima cosa una crisi del debito a breve. «Se chi ne possiede un pezzetto, di tale debito, inizia ad avere i dubbi sulla solvibilità, vuole indietro i suoi soldi in contanti. Che sia una società o un mutuatario, tutti vogliono indietro i soldi nello stesso momento e il sistema bancario collassa». Potrebbe tranquillamente ricapitare. «Le assicurazioni sui depositi e il sistema di regole bancarie adottate negli anni Trenta – afferma Gorton – sono riusciti a garantire 70 anni di pace finanziaria. Nonostante le obiezioni che all’epoca molti economisti fecero sostenendo che quelle assicurazioni e coperture avrebbero contribuito a favorire un pericoloso azzardo morale». Guarda caso la stessa obiezione che viene mossa oggi al governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, quando vuole garantire un cordone di sicurezza ai debiti pubblici attraverso il quantitative easing: l’acquisto diretto dei titoli di Stato favorirebbe un moral hazard. Che sia ancora «cecità cognitiva» figlia di un approccio sbagliato? Per questo Gorton dedica buona parte delle sue 170 pagine alla storia delle crisi finanziarie che si sono succedute per quasi un secolo dal 1833 al 1937. «Il loro studio – conclude – dovrebbe diventare l’ossessione degli economisti». Per pre-vedere almeno le prossime crisi in arrivo.
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