martedì 17 febbraio 2015
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«Il cibo ci insegna». Intorno alla metà del secolo scorso nessuno in Europa avrebbe avuto alcun dubbio su questa affermazione: la privazione insegna a badare a se stessi, ma anche alla necessaria dipendenza dagli altri; l’abbondanza insegna il valore della convivialità e quindi il rendere gli altri partecipi della nostra fortuna. Ma oggi, cosa insegna il cibo? Domanda che vale doppio a pochi mesi dalla grande esposizione internazionale di Milano, che viene venduta come un’imperdibile oppurtunità economica e culturale per il made in Italy, però non sembra capace, al di là degli intenti, di infiammare i nostri cuori e quelli della comunità internazionale per i valori veri della condivisione, della solidarietà, della cura del creato con l’infinita varietà degli alimenti che contiene.Eppure «dal cibo c’è molto da imparare. Ci fa sentire la dipendenza, che dovrebbe insegnare l’umiltà, la coscienza degli altri, il decentramento da sé, l’ingiustizia. Tutto nel cibo parla dell’altro. Ci dice che è sufficiente un solo pezzo di pane dato nel modo giusto per salvare un’anima. Che a questo mondo non ci sono padroni esclusivi del cibo. Che siamo tutti mendicanti... E tutto questo dovrebbe contare ancora di più oggi che siamo alle soglie dell’Expo». A parlare è Franco Riva, docente di Antropologia filosofica ed Etica sociale alla Cattolica di Milano. Il suo recente libro Filosofia del cibo> (Castelvecchi, pp. 234, euro 19,50) più che un saggio è un memento per la nostra civiltà consumista, decadente e massificata.Insomma, al di là degli auspici e delle denunce il cibo è ormai stato trasformato in un elemento massificante.«Se da una parte si pone in evidenza che quello del cibo è un problema globale, un’emergenza, dall’altra si mettono in atto meccanismi per cui l’atto del mangiare da parte del singolo diventa un gesto massificato, in quanto frutto di meccanismi collettivi sradicati. Solo in apparenza è una pratica quotidiana individuale».Cosa intende?«Che il nostro acquistare al supermercato e mettere in tavola gli alimenti di ogni giorno dipende per intero dalle multinazionali alimentari. E questo comporta che di quel cibo non sappiamo nulla. Non sappiamo quanta verità e quanta falsità, quanta giustizia e quanta ingiustizia, quanto colonialismo, quanto dissesto del territorio... siano in esso contenuti».Consumatori inconsapevoli?«Sì. E quando mangiamo cadiamo in due ingenuità fondamentali: credere che il mio mangiare quotidiano sia una faccenda personale, che riguarda la mia intimità; e credere, al contempo, che il mangiare insieme a qualcuno ridia valore al cibo dal punto di vista umano. Ma un pranzo conviviale non è necessariamente morale, perché anche il "mangiare insieme" è chiamato alla responsabilità, alla giustizia, alla salvaguardia del creato».Retorica?«Ma che ha anche una sua origine teorica in un testo del sociologo tedesco Georg Simmel secondo il quale il cibo quotidiano è quello di chi fatica per mangiare, mentre il mangiare insieme dona al cibo un valore che altrimenti non ha. E lui col concetto di mangiare insieme faceva riferimento alle tavole borghesi di fine Ottocento».L’obiettivo del suo libro è rivoltare il ragionamento?«Lego il concetto di responsabilità a quello di cibo, perché è dalla consapevolezza della responsabilità del cibo che inizia l’avventura umana. Se ne parla già nell’VIII secolo a.C. nel poema Le opere e i giorni».Cosa c’entra Esiodo?«C’entra perché in quell’opera racconta la storia di un popolo che tenta di costruire la città per l’uomo, ma non ci riesce perché non ha il senso della giustizia. Zeus gliela dona e quel popolo può finalmente costruire la città. In quel testo Esiodo non dice cos’è la giustizia, ma ci dice cos’è l’ingiustizia proprio partendo dal cibo. E spiega: "Nel mondo animale tutti mangiano tutti, ma fra voi uomini non è così". Insomma, la domanda sulla responsabilità del cibo segna la frattura fra un mondo umano e un mondo preumano. E noi, tutti i giorni, vediamo come l’umanità sia sempre su questo bilico fra il dono, la convivialità, la giustizia distributiva e il prendere, l’accumulare, l’ingurgitare per sé».Nel libro analizza a lungo la relazione cibo-corpo e non solo nel senso di magri, obesi, belli, brutti...«Ritengo che la responsabilità per il cibo sia un’occasione per riconciliarci col nostro essere incarnati: il corpo visto non come una colpa, ma come la condizione elitaria della nostra esistenza. Il cibo ci riporta alla terra, alla carnalità. La vita umana, quella di tutti noi, parte da lì. Per questo il cibo ha in sé il senso della prossimità con gli altri: l’essere prossimo non è una faccenda di angeli, ma è uno stare vicino di corpi. La massificazione del cibo, invece, ci sradica da tutto questo, ci aliena da noi stessi».In questo senso si può anche dire che il cibo aiuta a non perdersi nel virtuale?«Se ci riporta al radicamento nel corpo, in un tempo e in un luogo, il cibo è un antidoto agli eccessi della cultura del virtuale. Ancor di più per questo è importante legare ciò che mangiamo alla cura del creato, alla provenienza, alla diversificazione delle produzioni agricole. Raffredda le fughe nel virtuale ricordandoci che il nostro è un destino di incarnazione e quindi di prossimità con gli altri, di responsabilità».Torna il concetto di responsabilità.«La Bibbia comincia con una questione paradossale. Dio mette a disposizione dell’uomo l’intero creato. Può mangiare di tutto, ma non di un certo albero. Qual è il senso? Certamente non solo nell’invito a imparare ad astenersi, ad autolimitarsi. Quello è l’albero della conoscenza del bene e del male. L’invito a non mangiarne ci indica che tutto è lecito a patto che ci sia responsabilità. La vera parola di quel divieto è responsabilità: cura per sé, cura per gli altri, cura per il creato, cura per Dio. Ecco, la vera bellezza del cibo è che rende evidente la responsabilità».
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