venerdì 15 marzo 2013
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Vorrei consegnarvi i miei ricordi di zia Edith Stein: l’ho vista l’ultima volta il 12 ottobre 1933, in occasione del suo quarantaduesimo compleanno, che ha scelto di festeggiare a casa, cioè in casa di sua madre a Breslavia. Era la sua ultima visita, e l’ultimo giorno prima di prendere il treno per Colonia per entrare nel convento carmelitano come novizia. Avevo dodici anni. Mi ricordo chiaramente lo stato d’animo che regnava in casa: mia nonna era malinconica e triste. È stato un momento molto difficile per gli ebrei che dimoravano in Germania.L’Ordine Carmelitano scelto da mia zia era molto severo e tutti noi ci rendevamo conto che, una volta entrata in clausura, non avrebbe più lasciato il monastero. Era una donna molto decisa. Mia nonna aveva 84 anni ed era, al momento, vigorosa e attiva, ancora in grado di lavorare ogni giorno nella falegnameria, ma non era più in grado o disposta a percorrere grandi distanze. Quindi, noi tutti sapevamo che non avrebbe più rivisto sua figlia.Io e mio fratello, 11 e 12 anni, avevamo cercato di comprendere il dramma che attraversava la nostra famiglia. Zia Edith è sempre stata una figura molto importante per noi tutti: ogni estate trascorreva parte della sua vacanza in casa di mia nonna, una grande casa sotto il cui tetto aspettavamo con tanta impazienza il suo arrivo, perché era sempre disposta ad ascoltarci, a prendere sul serio le nostre preoccupazioni. I miei ricordi di zia Edith si intrecciano con i racconti dei miei genitori, che l’avevano conosciuta durante i suoi anni giovanili.Più tardi, quando zia Edith è entrata nell’Ordine Carmelitano, non potendo più venire a farci visita, ha avviato con noi una fitta corrispondenza epistolare. Ricordo in particolare che le sue lettere erano firmate con il suo nome religioso di Benedetta e ci sembrava che ormai si fosse creata una certa distanza tra noi.Ricordo la sua beatificazione a Colonia nel 1987. Mi sono recata alla cerimonia per il grande amore che ci ha sempre legate: non ha mai dimenticato le sue radici ebraiche tanto da rimanere sempre solidale con il suo popolo; non ha mai cercato di fare proseliti tra i membri della sua famiglia o con gli amici. Quella cerimonia è stata per me un memoriale per Edith e la sorella Rosa. Mi recai alla cerimonia per il mio popolo ebraico, per testimoniare che ci sono ebrei devoti nella famiglia di Edith Stein; che Hitler non poteva distruggere tutti noi e che non poteva fare a meno della vita ebraica. Tali motivi, per me, erano buoni e sufficienti.Le azioni di papa Giovanni Paolo II hanno dimostrato il suo sincero desiderio di rendere sempre più proficuo il dialogo con gli ebrei e con Israele. È riuscito a costruire ponti fino a quel momento inesistenti: nel 1986, ha compiuto il grande gesto di far visita per la prima volta alla grande sinagoga di Roma; nel 1993, ha stabilito relazioni diplomatiche tra il Vaticano e Israele e nel 1994 ha sponsorizzato un concerto in Vaticano, per commemorare la Shoah. Queste azioni e le dichiarazioni sono state accolte con grande riconoscenza in ambito ebraico.In occasione della breve udienza con Giovanni Paolo II, ho avuto il privilegio di presentargli una copia del mio libro da poco pubblicato, <+corsivo>Aunt Edith; the Jewish Heritage of a Catholic Saint<+tondo>, scritto per descrivere l’ambiente familiare in cui era cresciuta zia Edith, l’ambiente ebraico e l’eredità che nostra nonna ci ha trasmesso; libro attraverso cui ho cercato di presentare la mia amata zia nel contesto della sua grande famiglia. È scritto interamente dalla prospettiva di una nipote, la cui infanzia è stata illuminata dalla sua presenza radiosa durante le sue visite troppo brevi nella casa paterna.Un amico anziano, un sacerdote di 90 anni, ha detto che se Edith Stein potesse essere il mezzo per promuovere il dialogo fecondo tra le nostre due religioni, e se quindi si arrivasse ad un rapporto più armonioso, lei realizzerebbe un miracolo più grande di quello per il quale è stata canonizzata. Credo che il miracolo possa essere raggiunto solo da noi, cristiani ed ebrei, parlando tra di noi, lavorando insieme. Edith Stein può essere un catalizzatore, ma è a noi stessi che dobbiamo guardare per lavorare insieme.Cristiani ed Ebrei hanno già percorso una lunga strada verso l’avvicinamento e una migliore comprensione, ma il nostro lavoro non è finito. Dobbiamo avere una mentalità aperta, concedendo gli uni agli altri il diritto di essere diversi.
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