martedì 18 dicembre 2012
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In una ricerca pubblicata nel 2008 Phil Williams, esperto americano di studi strategici, individua le implicazioni di quelle che, secondo lui, sono le «conseguenze distruttive della globalizzazione» sul ruolo futuro degli Stati Uniti nel mondo. Il consulente del Pentagono parte dal presupposto che lo "statocentrismo" che avevamo ereditato dall’età moderna sia stato sostituito da una situazione nella quale lo Stato è solo uno degli attori della scena politica mondiale, caratterizzata ora dalla frammentazione dell’autorità, dalla sovrapposizione delle giurisdizioni, da sempre più vaste aree del pianeta sottratte al controllo dei poteri formalizzati (si pensi al risveglio prepotente della pirateria). Il declino degli Stati risulta evidente, se pensiamo alla loro difficoltà di intercettare i bisogni dei cittadini e di imporre un controllo efficace e continuo sia all’interno del proprio territorio sia alle proprie frontiere, oppure se consideriamo l’insorgenza di sempre nuovi e sempre più potenti attori transnazionali. Si rischia di cadere nel medio periodo dall’attuale "Nuovo Medioevo" in una "Nuova epoca buia". From the New Middle Ages to a New Dark Ages s’intitola appunto il saggio di Williams. La globalizzazione, in questi termini, costituisce solo il prologo di una ben più grave crisi di civiltà, che riporterebbe l’orologio della storia verso nuovi secoli bui, di barbarie, naturalmente "medievale". È evidente che in questa impostazione resistono pregiudizi antimedievali di matrice illuministica largamente superati. Inoltre l’idea che alla globalizzazione segua una nuova età "barbarica" deriva dal parallelo tra la caduta dell’Impero romano e il presunto declino dell’Impero a guida americana. Williams s’inserisce nel robusto filone del New Medievalism nordamericano, che, accanto alle analogie strutturali tra medioevo e contemporaneità, presenta venature millenaristiche tanto più evidenti quanto più dal terreno della storiografia e della politologia ci si allontani per entrare in quello della pubblicistica o della libera riflessione sul web, ove non a caso sono fioriti in quest’ultimo decennio numerosi forum di discussione sull’argomento.Resta da capire se davvero l’età di mezzo possa costituire un fecondo termine di confronto con l’età della globalizzazione. Per rispondere a questa domanda occorre in primo luogo chiarire che il termine medioevo indica un intero millennio e che sarebbe assurdo immaginare un periodo così lungo come un monolite. L’analogia strutturale con la globalizzazione è tuttavia molto fruttuosa, purché si abbandoni l’idea che in quei mille anni avesse dominato incontrastata la fantomatica "piramide feudale", una struttura di potere compatta, pervasiva e capace di controllare ovunque le anime e i corpi.Al contrario la medievistica scientifica sembra ormai quasi unanimemente orientata a considerare l’incessante sperimentazione istituzionale come il tratto distintivo di un’epoca nella quale i quadri del potere e le esperienze sociali si compongono e si scompongono di continuo, secondo logiche che effettivamente prescindono da quella dello Stato e con una frammentazione e privatizzazione del potere pubblico quasi inconcepibile per noi che siamo immersi nella logica dello Stato. Aveva ragione allora uno dei maestri della medievistica italiana del Novecento, Cinzio Violante, quando affermava che l’abbandono dell’insegnamento della storia medievale nelle facoltà di Scienze politiche impoveriva enormemente la formazione degli studenti. Essi sono infatti privati della conoscenza di un’epoca molto creativa sul piano istituzionale, nel corso della quale la crisi dell’Impero romano aveva prodotto fenomeni utili anche per capire taluni aspetti dell’attuale crisi dello Stato. Tale è la privatizzazione e perfino la patrimonializzazione della funzione militare, allora e oggi sempre più affidata a milizie o agenzie di sicurezza mercenarie. Lo stesso vale per la privatizzazione della giustizia, in mano ai signori rurali nel medioevo e oggi di fatto sottratta per larga parte allo Stato, attraverso il ricorso sempre più frequente da parte delle aziende a collegi arbitrali internazionali.
Come oggi, quando gli Stati non possono più gestirle sono cedute a soggetti privati, così nel medioevo le infrastrutture erano in mano a signori laici ed ecclesiastici che ne esigevano i balzelli, progenitori nemmeno troppo remoti dei nostri pedaggi autostradali. Il medioevo non conosceva frontiere lineari come le nostre, ma zone fluide di scambio e di scontro tra entità politico-militari differenti, che però condividevano orizzonti culturali e di fede per larga parte comuni a tutti, un po’ come oggi la rete e i mass media omogeneizzano i costumi e i consumi, di qualsiasi genere, in tutto il pianeta.
Analogamente non sembrerà del tutto innaturale la sempre più ampia delega da parte dello Stato a soggetti privati di settori che da almeno due secoli aveva avocato a sé, come l’educazione e la sanità, che nel medioevo e nell’Ancien régime erano stati di norma affidati alla Chiesa. Gli esempi, anche calzanti, potrebbero moltiplicarsi. Tuttavia il limite maggiore del neomedievalismo consiste nel mettere in scena la vicenda di due entità ipostatizzate, lo Stato e il medioevo, come se si trattasse dei personaggi di un dramma sempre uguali a sé stessi. L’esperimento è pericoloso, da un lato perché definire un solo medioevo è assolutamente impossibile, dall’altro perché lo Stato contemporaneo, sebbene ammalato, non sembra ancora destinato a un tracollo improvviso, ma piuttosto a una lunga metamorfosi. Non ha torto, allora, Tommaso di Carpegna Falconieri, quando dice che «la teoria neomedievale si snerva per l’incommensurabilità del termine di paragone, ma resta efficacissima come metafora» (Medioevo militante. La politica di oggi alle prese con barbari e crociati, Einaudi 2011). Ci sarà ancora da meditare.
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