martedì 6 ottobre 2015
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«Quale figlio di una famiglia di emigranti, sono lieto di essere ospite in questa nazione, che in gran parte fu edificata da famiglie simili». Con una sola frase, sul prato della Casa Bianca, di fronte al presidente degli Stati Uniti, papa Francesco è andato dritto al cuore di un tema di drammatica attualità e di un dato storico altrettanto cruciale. Ed è facile immaginare che il Papa, atterrando poi a New York o sbirciando tra i grattacieli di Ground Zero, abbia rivolto lo sguardo verso Ellis Island, uno dei luoghi più commoventi degli Usa dove sono custodite le storie di 12 milioni di persone che, tra Otto e Novecento, trovarono la porta d’ingresso per una nuova vita nel Nuovo Mondo.Oggi Ellis Island propone ai visitatori una frase-simbolo: «Fino a dove siete disposti ad arrivare per trovare una vita migliore?» e la risposta è nell’American Family Immigration History Center, con gli archivi delle schede anagrafiche degli immigrati consultabili dai visitatori. Il centro di accoglienza alle porte di Manhattan operò dal 1892 al 1954 e per documentare il prima - dal XVI secolo - e il dopo - sino ad oggi - è stata aperto proprio quest’anno il Peopling of America Center, una nuovissima sezione ricca di materiali interattivi che copre l’intera storia della nazione, con uno sguardo alla complessità dei fenomeni migratori in atto nel mondo. Una sorta di modello per altri siti che nel mondo propongono ai visitatori conoscenze, esperienze e riflessioni sul tema delle migrazioni.Un pezzo dell’ "Isola della speranza e delle lacrime" è infatti visibile anche in Italia, a Genova. Bisogna salire al terzo piano del Galata. Museo del Mare e entrare nell’esposizione permanente MeM. Memoria e Migrazioni. Nella sala 7 è stata ricostruita in modo molto efficace l’esperienza provata da chi sbarcava nel centro di identificazione di New York. In collaborazione con Ellis Island sono stati ricostruiti i test cui venivano sottoposti gli immigrati e il visitatore si ritrova ad essere anch’egli interrogato da un arcigno ufficiale dell’Immigration Service, in un colloquio che letteralmente decideva del destino di una vita. Sì, perché la caratteristica del MeM è l’immedesimazione; all’ingresso ci si trasforma in emigranti italiani di fine XIX secolo e, dopo essere "sbarcati" alla stazione Principe e essere transitati in una ricostruzione dei carrugi si arriva al porto e ci si imbarca su una ricostruzione del piroscafo "Città di Torino". Il viaggio virtuale del visitatore, tra cuccette affollate e installazioni multimediali termina con lo sbarco in Brasile, Argentina, appunto, a New York. Al MeM c’è dal 2011 una sala dedicata agli sbarchi a Lampedusa in cui è esposto un barcone originale ma ora il direttore, Pierangelo Campodonico, annuncia ad Avvenire che a primavera 2016 l’intera sezione sulle immigrazioni verrà riallestita. «L’orizzonte è cambiato», dice. «La maggioranza oggi scappa da zone di guerra e, allo stesso tempo, è cambiata la percezione degli immigrati nel paese. Elementi come lo "ius soli" hanno fatto la loro comparsa nel dibattito pubblico, e intanto si scopre quanto la crisi sia stata pagata soprattutto dagli immigrati che, nei ruoli meno protetti del mercato del lavoro, hanno visto contrarsi nettamente le loro condizioni di vita. Serve un nuovo allestimento che fotografi questa nuova situazione». Mettere in mostra drammi contemporanei e con protagonisti in carne e ossa è difficile? «Non è un lavoro asettico» risponde Campodonico. «Presentare una vita innesca una com-passione, accorcia distanze, mette in crisi pregiudizi. Certo, questi in Italia e in Europa sono temi divisivi ma il nostro compito è essere oggettivi e scientificamente corretti nel porre il tema e porgere le storie».Atteggiamento che si ritrova anche in altri siti europei. Pochi sanno ad esempio che la tedesca Bremerhaven è il porto da cui partirono milioni di emigranti tedeschi in cerca di fortuna nelle Americhe e in Australia. Proprio sul porto è stato aperto nel 2005 con criteri modernissimi ed immersivi il museo Deutsches Auswanderer Haus, premiato nel 2007 come miglior museo d’Europa.Ma è in Irlanda, a Dublino, che, su una piccola nave in legno, si vivono le emozioni più forti dopo quelle di Genova. Ricostruita fedelmente dopo che l’originale era affondata nell’Atlantico, la Jeanie Johnston è un’imbarcazione in cui, a 200 per volta, salirono tra il 1848 e il 1855 migliaia di irlandesi in cerca di salvezza. Le loro vicende sono, fra tutte, le più simili a quelle delle folle di disperati sui barconi nel Mediterraneo: decimati dalla terribile Grande Carestia delle Patate che per cinque anni provocò un milione di morti nell’isola, stremati e debilitati dalle malattie, intere famiglie patirono indicibili sofferenze pur di tentare di sopravvivere fuggendo. Un quarto della popolazione irlandese - 2 milioni su 8 - emigrò. Le guide che conducono la visita lo spiegano bene: gli scafisti di allora erano armatori e comandanti senza scrupoli che stipavano la gente nelle stive e aprivano i boccaporti solo per gettare in mare i cadaveri; i barconi di oggi erano le "coffin ship", le navi bara, di allora, spesso ex navi negriere. Fortunati invece i passeggeri della Jeanie Johnston. Comandante e medico di bordo avevano stabilito regole rigide ma di grande umanità che condussero in salvo tutti i passeggeri dei 16 viaggi compiuti dalla nave. Un manichino, nel buio della camerata, riproduce una madre con il figlio nato a bordo durante i 45 giorni di traversata verso il Canada. Anche la guida si emoziona spiegandoci che qualche mese fa i pronipoti di quella donna e di quel bimbo sono saliti sulla Jeanie e, commossi, hanno scoperto che si possono aver radici anche tra il fasciame di un guscio di noce in mezzo al mare.
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