mercoledì 19 agosto 2015
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Da una parte un mondo in frantumi, nel quale i volti degli uomini si sgretolano in una folla anonima e disperata. Dall’altra la possibilità e l’attesa che quegli stessi volti tornino a costituirsi in comunità, a costruire un edificio che salga verso il cielo senza più sfidarlo. È l’ultimo pannello della mostra “Abramo, la nascita dell’io”, uno degli eventi espositivi più importanti di questa edizione del Meeting di Rimini (Piazza C1: “Avvenire” partecipa all’allestimento in qualità di media partner). Il punto di arrivo, dunque, anche se il curatore Ignacio Carbajosa Pérez ci tiene a sottolineare come la contrapposizione tra macerie disperse e ritrovata unità rappresenti in effetti l’intuizione a partire dalla quale si è sviluppato questo percorso tra arte e archeologia, tra compimento della promessa e inquietudine dell’uomo. Biblista affermato (è ordinario di Antico Testamento all’Università San Dámaso di Madrid e direttore della rivista “Estudios Bíblicos”), don Ignacio lo dichiara in modo chiaro e diretto: «È con Abramo che tutto comincia, con la sua accettazione della chiamata. Soltanto l’apertura al Tu di Dio che si fa vivo nel reale rende possibile la nascita dell’io. Il tempo perde la sua connotazione ciclica, legata al susseguirsi delle stagioni e al rinnovarsi della fecondità, per assumere un andamento lineare. Diventa storia, dunque, ed è in questa storia che si manifesta Cristo, il vero discendente di Abramo».Sono le categorie dell’annuncio cristiano, ma sono anche le coordinate della crisi contemporanea. Elementi che veramente, al di là di pregiudizi e apparenze, appartengono al tempo di Abramo come al nostro. «Nell’esegesi recente – avverte don Ignacio Carbajosa Pérez – si tende a sminuire la credibilità storica della figura di Abramo. La tesi più diffusa è che si tratterebbe di una leggenda elaborata dagli ebrei nel VI secolo a.C., all’epoca dell’esilio babilonese. Una proiezione del popolo e della sua identità in un passato non verificabile, insomma. La vicenda di Abramo, al contrario, è del tutto coerente con il contesto politico e sociale del secondo millennio a.C. e uno dei meriti della mostra sta proprio nel ribadire questa storicità. Del resto, la discontinuità che Israele rappresenta è talmente forte, talmente radicale, da non poter essere giustificata da una motivazione solamente ideale. Per un cambiamento simile occorreva un avvenimento storico e quell’avvenimento coincide appunto con l’esperienza di Abramo».Le stesse argomentazioni vengono ulteriormente sviluppate dall’archeologo Giorgio Buccellati, che nella sua qualità di massimo esperto delle antiche civiltà mesopotamiche ha dato un contributo determinante alla realizzazione della mostra. «Il racconto di Abramo, così come ce lo restituisce la Bibbia, ha un’indubbia connotazione epica, ma questo non significa che sia in contraddizione con i dati accreditati dalla ricerca – avverte –. In generale, direi che tutta la tradizione biblica sui Patriarchi corrisponde con esattezza alla documentazione storica e archeologica in nostro possesso. Un aspetto decisivo, da questo punto di vista, è rappresentato dal mancato riferimento alla scrittura, che invece svolgeva un ruolo fondamentale nelle società mesopotamiche. Se davvero quella di Abramo fosse una leggenda tarda, immaginata a posteriori, tra Dio e l’uomo si stipulerebbe un contratto scritto e non ci si limiterebbe a una promessa verbale. Ma questo dettaglio è perfettamente compatibile con la cultura e le abitudini del popolo di Abramo, gli amorrei. La conquista della steppa da parte loro fu un’impresa di proporzioni veramente epiche, della cui storicità non possiamo tuttavia dubitare».Non si tratta soltanto di una migrazione. «Nel momento in cui esce da Ur dei Caldei, Abramo indica un’alternativa alla Città-Stato – avverte Buccellati –, sottraendosi agli obblighi che ne derivavano, come la pressione fiscale e la necessità di servire nell’esercito. Ed è proprio grazie a questa iniziativa che può nascere l’io, inteso come consapevolezza di un destino personale aperto all’assoluto. Intendiamoci, dal punto di vista grammaticale l’io in Mesopotamia esisteva eccome, basterebbe riandare all’epopea di Gilgamesh per rendersene conto. Ma un conto è l’espressione di sé a livello individuale e un altro è il superamento della mentalità funzionalista, che nega il riconoscimento del valore della persona. Con Abramo si afferma un io umano che può finalmente dare del Tu a Dio».Tra i molti capolavori riprodotti all’interno della mostra, spicca il “Sacrificio di Isacco” di Caravaggio nella versione conservata agli Uffizi di Firenze. Si tratta, ribadisce don Ignacio Carbajosa Pérez, della scena che meglio riassume il senso dell’intera vicenda: «Con un estremo atto di abbandono e di fiducia in Dio, l’uomo si spinge al limite dell’irragionevolezza. Personalmente non posso ritornare a questo episodio senza ricordare i versi con cui Giovanni Paolo II lo descriveva nel Trittico romano: “Un altro Padre riceverà qui la Consacrazione del suo Figlio”. Ciò che in Abramo è annunciato, si compie in Cristo. E riguarda tutti noi».
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