martedì 23 dicembre 2014
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«Non con le armi scintillanti combattono la guerra, ma con il cuore degli eroi». La motivazione con la quale la prestigiosa rivista Time ha indicato nei medici di Ebola il “personaggio dell’anno” per il 2014 è la stessa che accomuna una pattuglia, tutta italiana, di donne e uomini coraggiosi, impegnati nella loro missione a servizio della salute delle fasce più povere e vulnerabili del globo. Il medico di Emergency che, rientrato dall’Africa e ricoverato all’ospedale Spallanzani di Roma, sta combattendo da giorni contro il temibile Ebola non è che l’ultimo anello di una catena di persone che vivono la professione medica come autentica vocazione, assumendosi tutti i rischi necessari pur di salvare più vite umane possibili.Prendiamo Chiara Castellani, 58 anni, originaria di Parma, missionaria laica del Mlal in Africa. Partita nel 1983 per il Nicaragua – lei, laureata in Ostetricia e ginecologia ma in breve diventata, suo malgrado, chirurgo di guerra – dai primi anni ’90 opera in Congo. Sorretta dall’Aifo (Associazione italiana amici di Raoul Follereau), sovrintende una rete di una trentina di strutture sanitarie della diocesi di Kenge, grande quanto il Belgio. Tutto ciò nonostante, da oltre vent’anni, abbia perso il braccio sinistro in un incidente stradale sulle piste africane. Grazie a lei e al supporto della Fondazione Rita Levi Montalcini, numerose ragazze locali hanno potuto formarsi sia come infermiere che come medici. Rafforzare la sanità di base, cominciando col migliorare la preparazione del personale locale, è il compito che, da oltre sessant’anni, persegue il Cuamm di Padova. Nato come Collegio universitario aspiranti e medici missionari, per la formazione di studenti di medicina intenzionati a prestare servizio di volontariato nei paesi in via di sviluppo, da tempo il Cuamm ha affiancato, nel nome, “Medici con l’Africa”, a dire il cambiamento di prospettiva e la volontà di servire le popolazioni facendo sinergia con le realtà locali. In questo periodo i medici del Cuamm sono tra quelli in prima linea per arginare Ebola. Nell’ottobre scorso il responsabile della programmazione, Giovanni Putoto e il dottor Matteo Bottecchia, entrambi padovani, sono partiti per la Sierra Leone, con l’obiettivo di affiancare altri 4 operatori Cuamm operanti a Pujehun, dove coordinano un gruppo di circa duecento operatori locali.Dici Ebola e il pensiero non può non andare al drappello eroico delle sei suore Poverelle, stroncate dal terribile virus nel maggio 1995 a Kikwit, in Congo, allora Zaire. Allo scoppiare dell’epidemia, avrebbero potuto rientrare in patria, al sicuro. Ben consapevoli del rischio (erano tutte infermiere specializzate), hanno preferito restare in trincea, nelle corsie dell’ospedale dove hanno contratto il morbo. Erano quattro bergamasche e due bresciane: Floralba Rondi, 71 anni, Clarangela Ghilardi, 64; Danielangela Sorti, 47 anni; Dinarosa Belleri, 59; Annelvira Ossoli, 58 anni e Vitarosa Zorza, 51. Nel gennaio scorso il vescovo di Bergamo Francesco Beschi, chiudendo la fase diocesana della causa di beatificazione, non ha esitato a definirle «martiri della carità».E come non associare, in quella medesima definizione, il dottor Matthew Lukwiya, ucciso da Ebola, in Uganda, il 5 dicembre 2000, a soli 43 anni? Anch’egli non aveva indietreggiato davanti ai rischi. Era il direttore sanitario dell’Ospedale St. Mary a Lacor, fondato da una coppia italo-canadese, Lucille e Pietro Corti, che avevano messo gli occhi su quel giovane promettente e si auguravano che fosse lui a prendere in mano il futuro della “loro” struttura. Della stragrande maggioranza di queste persone straordinaria veniamo a conoscenza in occasione della loro morte. È stato così per Annalena Tonelli, missionaria laica di Forlì, uccisa il 5 ottobre 2003 a Borama, in Somaliland. Solo all’indomani del suo assassinio – per mano di un estremista islamico che ha agito per vendetta o forse per punire la straniera che, fra l’altro, si batteva contro la piaga delle mutilazioni genitali femminili – l’Italia ha scoperto di avere una connazionale che solo quattro mesi prima della morte era stata insignita dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati del prestigioso premio Nansen per l’assistenza ai profughi. Una che, nel 2001, aveva pronunciato in un meeting in Vaticano una intensa testimonianza che, letta oggi, rappresenta una delle pagine spirituali più alte del ’900.Qualcosa di analogo si può dire per Carlo Urbani, il medico marchigiano che, nel marzo del 2003, scoprì per primo la Sars, spegnendo sul nascere in Asia una sicura e temibile pandemia, ma rimanendone purtroppo vittima. In questi anni sono uscite diverse, pregevoli biografie su Urbani, che mettono in luce non solo la sua generosità eroica ma anche lo spessore spirituale della persona. Ebbene: è un fatto che, fino al giorno della sua morte il nome di Urbani, fosse noto quasi solo all’interno della cerchia degli addetti ai lavori, sebbene fosse stato proprio lui a ritirare, a nome di Medici senza frontiere, il Nobel per la pace assegnato all’organizzazione nel 1999. Oggi non è più così. Il suo nome è noto in Asia non meno che in Italia. Il ministro della Sanità di Taiwan, buddista, ha detto di lui che «figure di generosa ed eroica abnegazione come quella di Carlo Urbani rappresentano valori universali anche per noi, al di là di ogni differenza di credo».
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