martedì 26 aprile 2016
Mattei, l’amico Vanoni e le clarisse
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Erano amici e amavano la montagna, il marchigiano Enrico Mattei e il lombardo Ezio Vanoni. Pescavano insieme sulle rive del lago di Anterselva facendo a gara a chi catturava più trote. In quella località tra i boschi dell’Alto Adige, a 1.642 metri di quota, il presidente dell’Eni possedeva un maso a pelo d’acqua senza luce elettrica nè telefono, ci andava a trascorrere quasi tutti i weekend per riposarsi e pensare in tranquillità. Qui ospitava spesso i ministri arabi del petrolio e l’ultimo Scià di Persia, il giovane Mohammad Reza Pahlavi che aveva salvato da un cruento colpo di Stato a Teheran. Con il sovrano persiano tornato al potere, firmerà, nel 1957, lo storico accordo che consentiva la condivisione tra Italia ed Iran dei profitti della produzione di idrocarburi nel Paese asiatico. Ma era soprattutto con l’amico economista, cattolico come lui e ministro delle Finanze e del Bilancio dei governi De Gasperi, che Mattei preferiva ritrovarsi in quel paradiso della natura, tra cervi e scoiattoli ai piedi delle Alpi per discutere le politiche economiche ed energetiche necessarie alla rinascita e allo sviluppo della nazione dopo il disastro della guerra. Fiducia, stima reciproca e comuni vedute. Non è un caso che il professore di Morbegno, padre della riforma tributaria che porta il suo nome, sostenne, e non solo all’interno dell’esecutivo, ogni iniziativa di rilancio dell’Agip e dell’Ente Nazionale Idrocarburi e che Mattei si fosse impegnato a far valere su più fronti (compresa la Dc, il composito partito di entrambi) quel “Piano Vanoni” (Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-64) che tra i suoi obiettivi prevedeva la creazione di quattro milioni di posti di lavoro e la riduzione dello squilibrio esistente tra Nord e Sud. Un progetto di integrazione dell’intervento pubblico con quello privato che non diventò mai legge ma sortì, nella gestione della politica economica del governo, nonostante gli ostacoli di una parte del mondo politico, effetti assai positivi come l’aumento del reddito degli italiani (che in quel periodo superò il 5%) e la piena occupazione (seppur favorita da una massiccia emigrazione interna). Vanoni, come Mattei, non si accontentava dei princìpi, cercava di risolvere i problemi concreti della gente. E trovò nel suo amico ex partigiano, un solido alleato, un uomo d’azione dalle idee chiare. «Lui aveva due persone alle quali non sapeva proprio rifiutare nulla: l’amata mamma Angela ed Ezio Vanoni, i soli di cui aveva veramente soggezione» raccontava il sindaco di Acqualagna (Pesaro), il paese natale di Mattei, Ovidio Lucciarini, parlando del suo amico Enrico. Due politici coraggiosi e onesti, il cui rapporto di amicizia e collaborazione viene ricostruito nel libro del giornalista Maurizio Verdenelli, Enrico Mattei. Il futuro tradito (Ilari Editore, pagine 224, euro 15,00) che comprende anche un ricco repertorio fotografico con immagini d’epoca. Si tratta in realtà di uno sviluppo, con ulteriori approfondimenti e testimonianze inedite, del volume che Verdenelli ha pubblicato quattro anni prima dallo stesso editore sempre sulla figura del presidente dell’Eni perito nell’esplosione del bireattore sul quale viaggiava, nel cielo di Bascapè (Pavia), la sera del 27 ottobre 1962: Il santo petroliere: l’ultimo sogno marchigiano. Le due monografie sono diventate lo spunto per il convegno che la cattedra di diritto tributario del dipartimento di Giurisprudenza dell’università di Macerata ha promosso per domani (Aula magna, ore 10.00), sul tema: “Immaginare il futuro. La lezione di Enrico Mattei ed Ezio Vanoni”. Come si può “vedere oltre”? Come hanno fatto i due pionieri del progresso economico, insieme con gli altri padri della Repubblica, dentro il disegno degasperiano, a ricostruire il Paese e a farlo diventare una delle più grandi potenze del mondo? Quei princìpi e quei valori che li hanno mossi sono ancora validi? Servirebbero a fronteggiare la disoccupazione, le nuove povertà e il fenomeno dilagante dell’immigrazione che oggi coinvolge l’Europa intera? In fondo, certi nodi da sciogliere, seppure in un contesto interno ed internazionale completamente cambiato, sembrano gli stessi di mezzo secolo fa: il costo del petrolio, le politiche di sviluppo, la giustizia sociale. Saranno senz’altro diverse le ricette, ma ha certamente un senso interrogarsi sui fondamenti dell’azione politica di allora e sugli uomini che li incarnavano, il cui esempio può rappresentare almeno una speranza per il futuro. Ma la domanda da cui muove il secondo libro curato da Verdenelli (ex giornalista del “Messaggero” diretto da Italo Pietra, Vittorio Emiliani e Luigi Fossati, tutti “cresciuti” al “Giorno”, il quotidiano di Enrico Mattei) è “What if?”: che Italia sarebbe, quella di oggi, se Mattei fosse vissuto più a lungo, se la sua leggendaria esistenza con il suo immenso e febbricitante talento, non fosse stata disintegrata, a soli 56 anni, da 100 grammi di tritolo sistemati da mani ancora ignote nella carlinga di quell’aereo in quella maledetta sera? Lo svolgimento non è però l’ennesima indagine sulle cause dell’“incidente” ma una raccolta, ragionata e commentata, di una serie di testimonianze e contributi sulla personalità e il ruolo politico che ebbe il presidente dell’Eni in quel periodo della storia d’Italia. Dallo storico Mauro Canali al direttore di “Avvenire”, Marco Tarquinio, dall’imprenditore Francesco Merloni all’inviato del Tg2 Sandro Petrone, fino al preziosissimo racconto degli ex “ragazzi di Mattei”, coloro che lavorarono al suo fianco per anni fino a diventare affermati manager come Egidio Egidi, già commissario straordinario dell’Eni nel 1979-80 e Giuseppe Accorinti, ex amministratore delegato di Agip Petroli. Ne emerge un ritratto insolito del “santo petroliere” che ha come filo conduttore l’attaccamento di Mattei alla povera gente, il suo impegno di benefattore – mai ostentato – verso le orfanelle, i vecchietti e le suore del convento della Beata Mattia del suo adorato paese adottivo, Matelica (Macerata). Scrisse la madre badessa delle clarissse matelicesi Maria Luisa Fiorani alla morte del “caro onorevole”: «Sì, veramente ci ha voluto tanto bene, e con quale amore e interesse ha seguito in questi anni i lavori di restauro del nostro monastero, interessandosi nei più piccoli particolari a quanto ci poteva occorrere. Si preoccupava innanzitutto che non soffrissimo il freddo; la sua prima domanda quando veniva d’inverno era “Vi scaldate? Non dica bugie madre badessa” e andava a toccare i radiatori e sorrideva, con quella sua bontà che conquistava i cuori». Mattei, un genio degli affari nella vita civile, legato da fraterna amicizia anche con Giorgio La Pira, amava definirsi “francescano” e usò potere e denaro non per sè ma per il bene comune. Fu l’antesignano della spending review obbligando i dirigenti dell’Eni a non usare le auto blu ma i mezzi personali per recarsi al lavoro. Rifiutò incarichi di prestigio e stipendi con cifre da nababbo. Non morì ricco. Come il suo amico Vanoni che il 16 febbraio del 1956 venne stroncato da un infarto nell’ufficio del presidente Merzagora dopo aver pronunciato al Senato un appassionato discorso in cui invocava maggiore giustizia sociale per gli ultimi. Tornando mesi dopo nella sua casa di Anterselva, Mattei ritrovò in un cassetto il maglione da pesca dell’amico Ezio. E pianse.
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