lunedì 19 novembre 2012
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Sono le prime luci dell’alba e vedo i "cadaveri" alzarsi dai loro giacigli di pietra, sbarazzarsi dello straccio che portano intorno alle reni e andare alla più vicina fontana, dove si lavano versandosi addosso l’acqua con una ciotola di cotto. Il sole li asciuga all’istante, ed eccoli di nuovo pronti a camminare per questa sterminata città, per creare quel fiume ininterrotto che per l’intero giorno la terrà mostruosamente viva. Non tutti però si rialzano dai marciapiedi. Sono le 9, il termometro segna 39 gradi all’ombra, e in Kalighat Road c’è ancora un vecchio che dorme contro un lampione. Intorno a lui le pietre sono già roventi; persino i cani, i corvi, gli avvoltoi hanno trovato riparo all’ombra. Il vecchio se ne sta raggomitolato contro il lampione e tiene il magro braccio infilato nei fori di una cesta perché non gliela portino via. Più in là, all’ombra, c’è un giovane disteso sul dorso. Accanto a lui c’è una donna, quasi una bambina, che gli lava di continuo le gote, la fronte, intingendo uno straccio in una bacinella di rame. L’uomo è scosso dai brividi e tiene gli occhi chiusi. La donna-bambina continua a lavargli il volto e l’acqua della bacinella è diventata nera. Sono le 9 di una mattina di aprile e l’aria è rovente. Da un paio d’ore, già, il quartiere del Nirmal Hriday, della «Casa dei puri di cuore», è incredibilmente affollato, e del vecchio che dorme al sole e del giovane malato nessuno si accorge. C’è troppo trambusto nel quartiere perché qualcuno possa badare a fatti così irrilevanti. Sia benedetta la dea Kalì, che almeno ha portato qui un poco di benessere. Siamo infatti vicini al suo tempio, che è il più grande che le sia stato dedicato in India, e a ragione, perché la dea Kalì, la dea della distruzione, è la patrona di Calcutta. Nera, con 8 braccia, le mani rosse di sangue, il piede sul corpo del marito che ha assassinato, gli occhi iniettati di sangue, una dozzina di corone di fiori gialli e di teste decapitate intorno al collo, mostra irritata la lingua rossa, lunghissima, pendula. A venerarla arriva gente da ogni parte dell’India e ogni giorno, davanti al suo altare, sono sacrificati non meno di 40 capretti. Fra i mille odori di Calcutta, qui nel quartiere della «Casa dei puri di cuore» grava nell’aria, tenace, quello del sangue. A quest’ora, infatti, gli aiutanti del sacerdote hanno già fatto scendere per una ventina di volte la loro pesante scimitarra sul collo dei capretti e c’è sangue un po’ dappertutto nel cortile del tempio.
Ma la maggior parte del sangue finisce in un condotto, entra nel tempio, scorre sulla lingua pendula della dea Kalì e riesce dal tempio mescolato ad acqua, latte, riso e fiori. La folla, contendendola ai cani, si porta questa poltiglia alla bocca, con la mano destra, e canta, prega in un delirio mistico, mentre i mendicanti si dividono le carni dei capretti sacrificati. C’è davvero troppa animazione, fuori e dentro il tempio, perché ci si possa accorgere di un vecchio che non vuole svegliarsi e di un giovane che trema per la febbre. Ma all’improvviso, in Kalighat Road, si fanno largo tra la folla alcune giovani donne che indossano un semplice sari bianco orlato di azzurro. Non sono qui per la dea, lo si comprende subito. Non hanno nulla da vendere, nulla da offrire o da chiedere, nulla in comune con il resto della folla. Hanno occhi diversi, non stravolti, non eccitati. Una di esse si china sul giovane malato e gli tocca il polso, mentre un’altra interroga la donna-bambina che gli sta accanto. Poco dopo un carro si accosta al marciapiede e il giovane vi è coricato sopra. Quindi le donne in sari si avvicinano al vecchio, si chinano su di lui. Ma il vecchio non vuole rispondere, non vuole abbandonare la sua cesta. È testardo, cocciuto, come soltanto può esserlo un vecchio indiano. E allora una delle donne prende dal carro un sacco e glielo stende sopra e allontana i cani che hanno avvertito la morte. Poi se ne vanno: ci sono tanti marciapiedi a Calcutta. C’è sempre qualcuno, al mattino, che non riesce più ad alzarsi dalle pietre. Spetta alle donne in sari il compito di raccoglierli. Osservate meglio, sopra il cuore hanno un piccolo crocifisso in ottone, sono le missionarie della carità. Li portano nella vecchia foresteria del tempio della dea Kalì, e soltanto un muro divide la folla che si eccita all’odore del sangue dai "quasi morti" che stipano i due cameroni del lazzaretto.
Il budello che immette nel primo camerone, quello degli uomini, è ostruito dal corpo di un vecchio. È l’ultimo arrivato, dentro non c’è più posto. Gli hanno messo accanto due ciotole: l’una per l’acqua, l’altra per il riso. Il sole, da fuori, gli lambisce i piedi. Mentre lo scavalco i suoi occhi mi seguono e alza la mano in un debole gesto di difesa. Poi, sono nel camerone, di fronte ai "quasi morti". Stanno sulle loro barelle, sdraiati o seduti, e mi guardano, e si avverte soltanto il rumore delle pale dei ventilatori. Ci sono vecchi scheletriti, che non sanno tenere ritto il capo; uomini colpiti dalla lebbra; ragazzi ai quali non resta, di vivo, che gli occhi. I vecchi sono candele che si spengono con un nonnulla. Li hanno tolti dalle strade soltanto perché qui il trapasso sia meno crudele. Ma non resistono che tre giorni. Tre giorni di cibo, di cure, non compensano gli anni della fame. Vengono qui a morire, lo sanno anche loro. E sono felici, perché hanno un lenzuolo pulito, il primo della loro vita, una ciotola di riso, e il sorriso di Madre Teresa. Ed ecco entrare suor Teresa. Com’è piccola e magra. E com’è liso il suo sari bianco orlato di azzurro. Se non portasse il piccolo crocifisso sopra il cuore, potrebbe essere scambiata per la più povera delle donne di Calcutta. Ha il viso scavato, a punta, gli occhi grandi e grigi, pieghe amare già le solcano la bocca. E ci stupisce che, a un tratto, possa avere un sorriso, un sorriso che le illumina il volto e lo fa quasi bello. Nel camerone si sente ora un brusio. Sono i malati che ripetono il suo nome. Suor Teresa sorride e si china su un ragazzo, gli chiede qualcosa. Il ragazzo alza una mano fasciata e ha una smorfia di dolore mentre la donna gli toglie le bende. Alla mano mancano due dita. Mentre suor Teresa rifà la medicazione, mi sento toccare. Mi sposto per lasciar passare due uomini che reggono una barella. Sopra c’è un uomo nascosto da un lenzuolo. Suor Teresa gli scopre il viso: è il vecchio che pochi istanti prima mi stava osservando con il volto appoggiato alla mano. Se ne è andato senza un grido, un gemito. Ora lo portano nel cortiletto, dove c’è appesa ad asciugare la biancheria del lazzaretto. Lo posano su di un ripiano, accanto a due altri vecchi che sono morti nella mattinata. Li bruceranno stasera, sulla riva del più vicino braccio del Gange. Madre Teresa ha finito il suo giro.
Le donne, dal loro camerone, la salutano congiungendo le mani sul petto. Sono scarmigliate, magre, con gli occhi della pazzia. Una grida parole incomprensibili, un’altra ride. Fanno più pena degli uomini. Usciamo al sole, è quasi mezzogiorno. Da Kalighat Road hanno tolto il corpo del vecchio e la sua cesta. Accompagno suor Teresa, in taxi, al piccolo ambulatorio di Ekbalpore Road. Le visite sono finite; nella stanzetta, dove regna un acre odore di acido fenico, sono rimasti soltanto un’infermiera indiana e un giovane sacerdote. Nel vederlo, suor Teresa ha un grido di gioia. «Mi ha portato il progetto?». Il giovane fa cenno di sì con il capo e srotola un foglio da disegno sul quale è tracciata la pianta di un edificio. Suor Teresa lo osserva a lungo, si fa spiegare ogni dettaglio, mentre continua a dire: «It’s very nice», «È bellissimo». Ma infine, con una dolcezza che rivela il suo carattere conciliante ma anche autoritario, prende a dare suggerimenti, a spostare porte e finestre, ad allargare o a rimpicciolire gli ambienti, a disporre in altro senso i servizi. Alla fine, il progetto è un altro, ma il sacerdote-architetto è convinto per primo che sia notevolmente migliorato. «Vede – mi dice mostrandomi il disegno – io non avevo pensato ai venti. Lei sì. Ed è giusto spostare su questo lato la veranda. I malati saranno più al riparo». Sul foglio da disegno c’è la pianta del nuovo lebbrosario che sorgerà in Chingree Hata: ospiterà 600 malati e sarà uno dei più grandi dell’India. Lo costruirà Madre Teresa, questa piccola donna che ha giurato di sconfiggere l’inferno di Calcutta. Questa fragile donna che ogni mattina guida le sorelle dai sari bianchi orlati di azzurro a raccogliere i morenti nelle strade, che ha aperto scuole, istituti commerciali, ambulatori. Il suo nome è Agnese Gonxha Bojaxhiu. È nata 47 anni fa a Skopje, in Macedonia. È a Calcutta da trent’anni, da dieci è impegnata in questa opera di pietà con altre sessanta missionarie indiane. Ma i 200 dollari che il dottor Roy, il primo ministro del Bengala Occidentale, le passa ogni mese, non servono che a cominciare. Al resto pensa la provvidenza, e lei, che è un mare di coraggio, non fa certo mancare le iniziative. Lei, così fragile, con questo visetto da contadina siciliana, preso tutto da due occhi grandi e tristi. Due occhi che possono però anche sorridere. Due occhi che sanno anche comandare.
Quando le manifesto la mia ammirazione per ciò che ha fatto, ha un gesto che è quasi di fastidio. «Proprio lei deve dirmi questo? Proprio lei che è di Torino e sa cos’è il Cottolengo?». Nel tardo pomeriggio, dopo aver visitato alcune scuole, torniamo nel quartiere della «Casa dei puri di cuore». Siamo di nuovo nel camerone del lazzaretto. In un angolo, sotto il piccolo lume della Vergine, una ragazzina indiana stira della biancheria. C’è un’afa tremenda e i malati non riescono più a star seduti sul letto, come al mattino. Le vetrate colorate sono quasi spente. L’ultima debole luce batte sul cranio nero e levigato di un vecchio. Nessuno si muove, nessuno parla, ma tutti gli occhi sono puntati su di noi. Nel budello di uscita, incespico nel vecchio che non ha ancora trovato posto nel camerone e che fa anticamera per entrare nell’anticamera della morte.
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