lunedì 21 aprile 2014
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Michael Lonsdale è famoso: un bel paradosso per uno che non nasconde la sua timidezza e sensibilità. La sua storia – composta da trasferimenti, rotture, e tessuta di un’inestinguibile desiderio di bellezza, di una bruciante ricerca d’assoluto – si può leggere come l’itineria di un uomo che si completa a poco a poco. Lonsdale, lei è un artista che non nasconde la sua fede cristiana. Come riesce a conciliare le aspirazioni spirituali con le leggi dello «show business»? «Nello show business regna un desiderio di essere grande, di essere amato, ma non c’è regola. Da dove arriva questo desiderio? Ho una mia analisi, un po’ brutale. Sono stato un figlio naturale. In famiglia mi hanno nascosto. Mia madre non osava dire a suo padre che esistevo, perché anche lui era un figlio naturale. Quando mia nonna è venuta a trovarla a Parigi, subito dopo la mia nascita, mia madre non le ha potuto dire: "Di sopra c’è un bambino". I bambini capiscono tutto. Può darsi che, nell’inconscio, mi sia detto: "Ah sì? Mi avete voluto nascondere? Ebbene, vedrete che esisto!"». All’improvviso la conoscono tutti, non solo i familiari. Non è un po’ pesante? «Volevo fare un mestiere mediatico: essere conosciuto fa parte del mestiere. La gente mi dice: "Grazie per il film Uomini di Dio". A loro fa piacere parlarmi e a me fa piacere ascoltare, fermarmi un po’». I fan le parlano della sua fede? È portato a dire ciò in cui crede? «Ognuno è diverso, non consegno un messaggio. È incredibile ciò che la gente riesce a scrivermi o a raccontarmi al telefono. Si confidano. Allora prego per loro, chiedo allo Spirito Santo di aiutarmi ad agire. E quando faccio una dedica su un libro, scrivo "Pace, gioia, amore", o cose simili, e disegno un sole». Da bambino è stato sballottato da un posto all’altro… «Mia madre era sposata a un ufficiale della marina inglese. Un giorno incontrò quello che sarebbe diventato mio padre e fu un colpo di fulmine; lasciò il marito e lo seguì. Sono nato da quell’amore, a Parigi. Mamma dipendeva finanziariamente dal padre, un ricco colono inglese. Poiché mio padre non aveva soldi, mia madre ha dovuto dire che c’ero. Il nonno fece il muso lungo, poi le consigliò di partire per il Canada o l’Australia per nascondere quella vergogna. E la vergogna ero io! Suzanne, mia nonna, intercedette e alla fine approdammo sull’isola di Jersey con una grossa somma di denaro. Mia madre acquistò un albergo che gestiva con papà. Eravamo là prima della Seconda guerra mondiale. I miei genitori non seppero gestire bene l’albergo, era pieno più di amici che di clienti. Nella primavera del 1939 lo vendettero per trasferirsi a Lourdes dove papà aveva trovato un lavoro. Poco tempo dopo il suo capo lo mandò in Marocco. Il 15 agosto 1939 sbarcammo a Casablanca. Poi scoppiò la guerra. Impossibile tornare in Inghilterra». Un piccolo britannico in un protettorato francese al tempo dell’occupazione tedesca… «Non fu facile. Come tutti gli inglesi, papà fu imprigionato per sei mesi. Churchill aveva fatto bombardare la marina francese a Mers el-Kebir. Per strada sentivo: "Sporco inglese, fai schifo". All’uscita della scuola c’erano i figli dei sostenitori di Pétain ad aspettarmi per spaccarmi la faccia. Ma avevo degli amici, Jojo, Mimi e Lulu, che stavano dalla parte di De Gaulle e mi facevano da guardie del corpo. Jojo era la ragazza, ci volevamo bene». In «Uomini di Dio» appare a suo agio nel mondo arabo, come se fosse a casa sua. «Sì, ho vissuto la vita araba: matrimoni, funerali… E poi i canti… Era incredibile. La nostra casa dava sul cortile della prigione. Mamma, nata in Algeria, conosceva l’arabo e parlava con le carcerate. Mai di religione, però. Non ero battezzato e i miei genitori erano lontani da tutto questo. Papà era protestante, ma non praticava. Mamma, cattolica, era stata allevata dalle suore, dove non doveva aver fatto la brava perché le avevano detto che sarebbe finita all’inferno. L’unico contatto con la religione, forse, è che per un periodo abitammo dal nipote della donna amata da Charles de Foucauld. C’è anche un libro che mi aveva regalato mia madre: The life of Jesus. Mi ricordo anche di avere detto al nostro padrone di casa, che voleva sbarazzarsi degli oggetti devozionali che aveva in casa: "Non ne ha il diritto!". Perché? "Perché sono cose sacre", esclamai senza sapere bene cosa volesse dire. Allora ereditai alcuni di quegli oggetti e mi fabbricai il mio angolo di preghiera». In che periodo lasciò il Marocco? «Tornammo in Europa nel 1947. Parigi era triste, fredda, dura. C’era ancora il razionamento, ma l’uomo con cui viveva ora mia madre era gentile. Mi portava nei musei e così cominciò la mia educazione artistica. Anche uno zio mi faceva leggere libri importanti e mi insegnò a dipingere. In realtà la scuola non mi è mai piaciuta: da adolescente non sapevo quasi nulla». È l’inizio di una nuova vita. Del Michael Lonsdale che conosciamo, attore e credente, non c’è ancora nulla, mi pare. Il teatro e la fede arrivano insieme? «Non sono legati, ma neanche estranei. A Rabat avevo fatto radio. Si leggevano racconti al microfono. E poi c’era il cinema. Ero soggiogato, non ci dormivo. Solo dopo essere arrivato a Parigi è stato possibile, non senza difficoltà perché ero timido. Un giorno lessi su un giornale: "Volete sapere se potete diventare attore?". Andai: era un’audizione. Dopo tre giorni il professore mi disse che ero troppo chiuso, non ci sarei mai riuscito. Delusione! Un’amica di mamma mi aiutò. Mi fece conoscere una scuola d’arte per giovani cristiani. Era il 1952. Un padre domenicano ci spiegò il rapporto tra arte e fede. Questo mi diede un’energia formidabile, tanto che trovai il coraggio di parlargli. "Che cosa cerchi?" mi disse. Balbettai la risposta: "Qualcosa di vero, di grande, di bello, di puro…". Si discute. Mi disse: "Penso che quello che cerchi sia Dio". A quel punto è cominciato il mio percorso di catecumenato, sostenuto da una madrina caduta dal cielo, una parrocchiana cieca che guidavo per Parigi e che, mentre camminavamo, mi raccontava la vita di Gesù. Una volta battezzato, presi contatto con la cappellania degli artisti che mi indicò una certa Tania, professoressa di teatro che mi prese in carico. Fu l’inizio della mia carriera». Al cinema lei ha incarnato religiosi, come il padre abate in «Il nome della rosa» o più recentemente un curato italiano in «Il villaggio di cartone»… «In effetti, è incredibile! Ho fatto tutta la gamma: curato di campagna, vescovo, cardinale, papa, persino l’angelo Gabriele con Josiane Balasko, ma solo la voce. Ho anche recitato nel ruolo di san Serafino di Sarov, un’esperienza allucinante: quando recitavo, avevo l’impressione di non essere io a parlare… Di sicuro quando interpreto ruoli come questi ho l’impressione di trasmettere, di evangelizzare. Pensate a Pierre Fresnay che interpreta Vincenzo de’ Paoli. È toccante, ha commosso milioni di persone. In ogni caso ho una fortuna sfacciata a far questo». Le è mai venuta l’idea di consacrarsi a Dio? «Sì, qualche volta. Ho avvertito delle chiamate, ma non abbastanza! All’inizio c’era una ragione concreta per dire no: era che facevo vivere la famiglia, con mia madre malata. Non potevo mollare tutto. In ogni caso quelle chiamate non erano frequenti. E poi bisogna essere giovani». Qual è il posto della fede nella sua vita, oggi? «La fede è essenzialmente quello che mi preoccupa di più. Mia madre è morta dopo undici anni di malattia nel 1985, anno in cui anche altri parenti sono scomparsi. Dal fondo dell’abisso trovai la forza di invocare Dio, ero pronto ad andarmene. A quel punto, per caso, suonano alla porta… Mi piace molto la frase di Einstein: "Il caso è quando Dio si manifesta in incognito". Era il mio padrino. Quella stessa sera mi avrebbe portato nella chiesa di San Francesco Saverio, a Parigi, a una riunione di credenti che pregano e cantano, mi disse. Era una riunione dell’Emmanuel. Il canto in lingua mi toccò il cuore. Credevo di sentire il canto degli angeli… Allora mi unii a un gruppo di preghiera. La spiritualità di quella comunità cosiddetta nuova lascia molto spazio allo Spirito Santo. Io sono nato il giorno di Pentecoste. Quando si parla di Spirito Santo, mi riscuoto». Da dove le arriva quello che ha scoperto sulla preghiera? «Ho capito che potevo pregare ovunque: non c’è bisogno di andare in chiesa. Mi piace pregare in treno. Sto seduto, mormoro. I passeggeri pensano che stia ripetendo una parte. Chiedo a Dio di accettarmi come sono, di trasformarmi e aiutarmi a migliorare. Dio è completamente libertà e amore. Il Rinnovamento mi ha dato in più un vivere insieme. Nel 1988 creammo un gruppo di preghiera di artisti, Magnificat, che è durato vent’anni. Voleva essere un luogo per artisti in grande sofferenza. Gli artisti sono persone a disagio, hanno una sorta di inadeguatezza nei confronti della vita. Hanno bisogno di essere amati. Una sala che applaude li rassicura. In fondo, hanno bisogno della luce. In tutti i sensi. Dopo la morte di mia madre dissi al Signore: "Fa’ di me quello che vuoi". La risposta arrivò subito: Dominique Rey mi chiese di allestire Racconti di un pellegrino russo. Volendo testimoniare spiritualità, ho poi allestito diversi spettacoli: san Francesco d’Assisi, Teresa di Lisieux, la fondazione di Emmaus dell’Abbé Pierre…». Quando ha voglia di ritirarsi in se stesso, ha un luogo o un rito particolare? «No. Nel mio cuore. Dio è di un’accessibilità immediata. Ci si fa piccolissimi, gli si chiede. Bisogna affidarsi allo Spirito Santo. Se dovessi dare un consiglio direi: ricorrete allo Spirito Santo, pregate Dio, chiedete molto. E poi circondatevi di persone che testimonino questa capacità, persone che siano in Dio. Guardi, ad esempio, sono andato al Centro di Jean Vanier a Lille. Ho trascorso una giornata con i giovani disabili. È stata di un’allegria incredibile». © Panorama Francia e per l’Italia Avvenire; traduzione di Anna Maria Brogi
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