giovedì 18 ottobre 2012
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Meno di dieci giorni per salvare 34.000 persone, fra le quali 10.000 ebrei, in fuga dalla furia nazista. Un film per riscattare la memoria dell’«ultimo eroe portoghese, armato di una sola penna». L’obiettivo del regista lusitano Joao Correa, autore de Il console di Bordeaux, è ricordare al mondo, e in particolare al paese iberico, il coraggio di Aristides de Sousa Mendes. La sua storia è caduta nell’oblio forzato, schiacciata dalla vendetta del dittatore portoghese Antonio de Oliveira Salazar, sotterrata dalla miseria e da decenni di indifferenza. Ora torna alla luce grazie a questo lungometraggio che ha già partecipato a due festival cinematografici in Francia e il prossimo mese arriverà nelle sale del Portogallo. Giugno, 1940: i tedeschi hanno appena occupato Parigi. Aristides de Sousa Mendes è il console del Portogallo a Bordeaux: ha una bellissima famiglia, una vita tranquilla e agiata, una brillante carriera diplomatica e una buona relazione con il dittatore Salazar. Ma il console, cattolico praticante e con una profonda fede, è angosciato dai dubbi morali. Le vie di Bordeaux in quei giorni si riempiono di disperati che cercano di scappare dal nazismo. L’esodo attraversa la cittadina francese, punto nevralgico verso il sud d’Europa. Il regime portoghese di Salazar ha optato per una neutralità di facciata: in realtà proibisce esplicitamente al personale diplomatico di concedere visti e permessi per fuggire dalla Francia occupata. Nelle istruzioni inviate ad ambasciatori e consoli, si ricorda che è vietato assegnare documenti a «stranieri di nazionalità indefinita, contestata o in conflitto; agli apolidi o agli ebrei espulsi dal loro Paese d’origine»; infine, in un ordine successivo, Salazar dice ancor più esplicitamente che «non si debbono emettere visti per ebrei o altre persone indesiderabili». Il console di Bordeaux osserva la folla di uomini, donne e bambini davanti alle porte della sede diplomatica portoghese. Chiedono aiuto. Per due giorni vive una terribile crisi personale: non si alza dal letto. Poi reagisce: ha capito cosa deve fare. «Se bisogna disobbedire, preferisco farlo contro un ordine degli uomini piuttosto che farlo contro un ordine di Dio». Lui stesso riunisce il personale del consolato e chiarisce: da ora in poi verrà concesso il visto a chiunque lo reclami. Senza limiti di origine geografica, razza, religione. In pochi giorni, fra Bordeaux ed Hendaye, il console garantisce 34.000 salvacondotti (oltre 10.000 per ebrei), ma firma anche la sua "condanna". Il regime non lo perdonerà mai. Salazar ordina di fermare Aristides de Sousa Mendes: il diplomatico viene destituito e riportato a Lisbona. Il dittatore dichiara non validi tutti i visti di Bordeaux, ma è troppo tardi: fortunatamente migliaia di persone sono già giunte in Portogallo e da lì hanno preso la via per gli Usa o verso altri Paesi. Nel frattempo Aristides viene obbligato ad abbandonare la sua professione, ma non gli viene concessa neppure una pensione. L’ex console viene da una famiglia borghese piuttosto ricca, ma ha 14 figli a cui pensare e comincia a vendere le sue proprietà, poi la casa, i mobili. Resta senza nulla. Con gli anni, molti figli emigreranno: due partecipano allo sbarco in Normandia con l’esercito americano. Resta sempre più solo e muore nel 1954 nella capitale portoghese, in un ospedale francescano. «Fu il prezzo che pagò per aver disobbedito al regime di Salazar», spiega il regista del film, una produzione spagnola-portoghese. Dimenticato dal Portogallo (fino al 2001, quando venne "riabilitato" il suo ricordo), ma non da Israele: nel 1966 lo "Schindler (o Perlasca) portoghese" viene riconosciuto fra i "Giusti fra le nazioni", ovvero i non-ebrei che hanno agito in modo eroico per salvare la vita anche di un solo ebreo dalla Shoa. Il lungometraggio è un tributo a un uomo di grandi valori e incredibile coraggio. Il sogno dei nipoti, ormai sessantenni, è trasformare l’antico palazzo del console, a Lisbona, in un museo.
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