martedì 26 maggio 2015
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Antonio Ligabue, il grande pittore naïf, a cinquant’anni dalla morte (il 27 maggio 1965), continua ad affascinare con le sue opere di grande potenza (basti pensare al successo che riscuotono le sue mostre, ovunque si tengano). Scriveva Indro Montanelli: «Io stesso, nella mia ignoranza, sono rimasto stupito dalla nettezza dei colori e dallo straordinario potere di suggestione che sprigiona da certe sue assurde figure di leoni e di gorilla e da certe sue macabre sequenze di scarafaggi all’assalto di cadaveri». Ma l’artista continua ad affascinare, anche, per la sua vita stramba e disperata. Proprio all’uomo, Antonio Ligabue, è dedicato un bel documentario di Ezio Aldoni che sarà presentato, in anteprima nazionale, il 3 giugno, a Gualtieri, il paese della Bassa reggiana dove visse e morì. Il filmato sarà poi proiettato il 5 giugno a Costigliole di Saluzzo (Cuneo) dove, presso il Palazzo Sarriod de La Tour, è in corso, sino al 5 luglio, la mostra Antonio Ligabue e i candidi visionari. Sono da ricordare anche il libro dello storico dell’arte Marzio dall’Acqua, Antonio Ligabue, edito da Castelvecchi e l’antologica che si terrà a Gualtieri dal 31 maggio all’8 novembre. Un’opera importante, quella del regista Aldoni, quasi definitiva, oseremmo dire, che si avvale (oltre alla testimonianza di persone del posto) della partecipazione di figure di spicco del mondo culturale italiano. Si va da Vittorio Sgarbi ad Alessandro Haber, da Flavio Bucci a Beppe Carletti (che, per l’occasione, ha rispolverato l’intensa canzone Damm un Bes scritta da Augusto Daolio). Tra i tanti meriti del documentario (a cui fa seguito un bel volume, Antonio Ligabue, l’uomo, edito da Imprimatur e scritto a quattro mani con Giuseppe Caleffi, direttore della Casa Museo recentemente aperta proprio a Gualtieri) c’è quello di portare alla luce e di dare il giusto peso a un passaggio della vita di Ligabue rimasto per lo più inedito e poco approfondito: quello, cioè, della sua religiosità e della conversione al cattolicesimo avvenuta negli ultimi anni di vita. Aveva ragione Sergio Saviane quando notava che Ligabue era una «delle più complesse esistenze del nostro tempo che ha dipinto circa 500 quadri e, malgrado il suo valore, è rimasto finora in ombra e nella più squallida miseria». La sua fu un’infanzia difficile: nato in Svizzera nel 1899, da madre italiana, aveva appena un anno quando venne affidato a una famiglia di elvetici, instaurando un rapporto di amore e odio con la matrigna. Cacciato dalla scuola, venne poi (a seguito di una denuncia della matrigna) mandato via dalla Svizzera nel 1919 e portato a Gualtieri (il paese di origine del padre adottivo). Qui, dopo qualche lavoretto a giornata scappò nel bosco, vicino al "Grande Fiume" (come Giovannino Guareschi aveva ribattezzato il Po), vivendo nelle capanne disseminate nella golena. Iniziò a dipingere mescolando i pochi colori che trovava con l’urina e i suoi sputi. Per tre volte venne ricoverato in manicomio. Il suo talento, però, venne prepotentemente fuori, se ne accorse il pittore Renato Marino Mazzacurati che lo sostenne e lo fece conoscere. I suoi quadri cominciarono ad avere certo valore, ma per lui furono sempre motivo di scambio. Li barattava con tutto: dai conigli alle moto (sempre e rigorosamente Guzzi: ne arrivò a collezionare undici).Proprio a bordo di una di queste farà un grave incidente che lo costringerà al ricovero ospedaliero, con l’impossibilità di dipingere. Qui si concretizzerà il suo avvicinamento alla Chiesa. Ligabue, va ricordato, non aveva mai avuto simpatia per gli ambienti ecclesiastici. Si dice, però, che se ne andasse furtivamente in chiesa per suonare l’organo. Ci ha raccontato Giuseppe Amadei, grande collezionista e storico deputato socialista: «All’epoca del ricovero ospedaliero del Toni, era parroco di Gualtieri don Quirino Merzi, scrupoloso religioso morto poi prematuramente, che non avendolo mai visto in chiesa, temendo di importunarlo e di esser respinto non gli si avvicinava per non disturbarlo, fu il pittore a richiamare la sua attenzione. Un giorno mentre somministrava i sacramenti ai degenti Ligabue gli disse: «Perché a me no? Suntia na bestia me? (Sono una bestia io?)». Nacque da lì un bel rapporto che portò don Merzi a battezzarlo il 18 giugno 1963. Come padrino un infermiere del ricovero, Renato Benaglia, un amante del suo lavoro e dell’opera lirica che, non sposato e senza figli, si fece preparare la tomba per tempo con su scritto: «Oggi a me domani a te». Poco più di un mese dopo, il 27 luglio, fu, invece, il vescovo di Guastalla, monsignor Angelo Zambarbieri (nominato da Giovanni XXIII in partibus di Sita) a cresimarlo. Quella volta, a far da padrino, fu il medico condotto Gioacchino Tarana. Era stato lui a salvare la vita a Ligabue durante la guerra: lo aveva sottratto, infatti, a una possibile fucilazione quando il Toni, che era stato "assunto" dalle truppe naziste come interprete, in uno scatto d’ira aveva spaccato una bottiglia in testa a un graduato nazista. «Una parte importante nella conversione, diceva mio padre Celestino (segretario del ricovero) – spiega Giuseppe Caleffi – fu merito di una suora di nome Tonina che lo curava e lo imboccava. Bisogna ricordare che il Toni era misogino. Era la prima volta, forse, che una donna si rivolgeva a lui con affetto disinteressato. Questo può aver influenzato, ma non determinato la conversione». Don Merzi fu poi trasferito e sostituito da don Fabiano Tortella (parroco di Gualtieri dal giugno 1963 al luglio 2003) che, oggi, monsignore 92 enne, ci ha raccontato: «Durante una visita per la Santa Pasqua mi chiese di ricevere la comunione. In seguito andai a trovarlo. Parlavamo spesso assieme e lui si dimostrava sempre molto cortese e rispettoso, molto lontano dalla caricatura di uomo selvatico che gli veniva affibbiata in giro. Pregammo anche assieme». Fu don Tortella ad accompagnare Ligabue nel suo ultimo viaggio, un piovoso giorno di maggio di cinquanta anni fa. «Fu un funerale solenne – ricorda –, con la banda e il corteo a piedi che attraversò le vie del paese, era una sabato pomeriggio e la presenza fu massiccia, tra i tanti anche lo scrittore Cesare Zavattini». Al cimitero ci fu un’orazione del sindaco, socialista-prampoliniano, Serafino Prati, che, alcuni anni dopo, dedicherà al pittore un piccolo, ma appassionato libro in cui si può leggere: «Per me Ligabue si potrebbe paragonare a san Francesco d’Assisi. Esso tutto diede senza mai nulla chiedere. Ma non tutti son d’accordo! Letterati, giornalisti e critici d’arte lo vedono da diverse angolazioni: lo compongono o lo scompongono; lo pongono al vertice della gloria o lo lasciano vivere nel suo originale elemento, ignorando l’uomo. Ma Ligabue è solo ed esclusivamente Ligabue. È una luce, finalmente libera di spaziare, ieri locale e provinciale, oggi nazionale e mondiale, un faro che illumina l’onda della vita col sacrificio, con l’amore al buono e al bello alimentato dalla sua meravigliosa arte». Ci fu, però, come avviene spesso in questi casi, qualcuno che mise in dubbio la spontaneità del gesto religioso. Umberto Bonafini su Bassa Reggiana scriveva, a pochi giorni dalla morte: «Certe affermazioni di fede gli sono state estorte quando non aveva la capacità di opporre a esse la sua libera natura che, nel suo protestantesimo universalmente espresso, aveva trovato i canoni della sua libertà spirituale».In realtà, come fanno notare Aldoni e Caleffi, nel loro lavoro, la conversione sembra l’ultimo messaggio che ci lascia quest’uomo dall’esistenza grandissima e miserabile. E in quel «suntia na bestia me» c’è tutta la disperazione e la solitudine di un’anima che con la conversione decide di uscire dall’amato mondo degli animali per entrare in quello, tanto agognato, degli uomini. Quanto questo sia stato fatto coscientemente, nessuno può dirlo. Certo è che diversi testimoni dicono che nella sua stanza-studio, in cui aveva passato i giorni prima dell’incidente, si trovassero piccoli quadri con raffigurato un uomo crocifisso.
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